La confessione dell'imputato non è prova di colpevolezza di A. Galante Garrone

La confessione dell'imputato non è prova di colpevolezza Chiara sentenza del Tribunale di Roma La confessione dell'imputato non è prova di colpevolezza Sovente si proclama responsabile soltanto perché è stato costretto - Vale ancora il monito che si rivolgeva ai magistrati di Venezia: «Recordéve del poero forner» - E' urgente riformare la nostra procedura penale Una rivista giuridica ha pubblicato in questi giorni la chiara e nettissima motivazione della sentenza del Tribunale di Roma (presieduto da uno dei nostri migliori magistrati, Salvatore Giallombardo), con cui si mandavano assolti tre giovani che davanti alla polizia si erano confessati autori di un grave furto alla Esattoria di Tivoli. Una confessione inattendibile, palesemente smentita dalle circostanze obiettive, inficiata da contraddizioni insuperabili; e provocata da indubbia coartazione, morale o fisica, quanto meno nella forma di una potente, e riprovevolissima, suggestione. La confessione, ha detto con forza il tribunale, non è più la « regina delle prove», come si usava dire un tempo. Il credito sovrano di cui godeva è andato irreparabilmente in frantumi. Se non slamo giunti al punto di escluderla dal novero delle prove, come voleva Filangieri, oggi comincia a farsi strada la convinzione che la prova del reato debba essere sopra tutto cercata all'infuori dell'imputato. Lo stesso interrogatorio, più che uno strumento — o un trabocchetto — per ottenere, o carpire, la confessione, dovrebb'essere apprestato come un mezzo di difesa. La 'confessione può avere valore solo se spontanea, scaturita dal profondo della coscienza, come un improvviso sprazzo di luce, di verità. Per questa sua essenza di genuina spontaneità, essa dovrebb'essere rarissima, eccezionale. L'istinto primo del colpevole è, normalmente, di tacere la propria reità. Accade invece, nella pratica, tutto il contrario. Spesso all'arresto segue, in camera di sicurezza, la confessione; seguita a sua volta, dinanzi al giudice, dalla ritrattazione. Il che finisce per gettare discredito non solo sull'istituto della confessione, ma, quel che è assai più grave, sull'andamento stesso della giustizia. Alla Arie di questa grottesca e ormai consueta parabola, si pone al giudice il dilemma: è più credibile la primitiva confessione, p la successiva ritrattazione? " Per1 ' 'risolvere il dilemma, si deve attingere ad altre fonti di prova. Ma allora, non sarebbe più saggio non puntare sempre e tutto sulla confessione dell'imputato? e perché invece questo accade in tanti, in troppi casi? La verità è che c'è r.ncora, nel subconscio di molti inquirenti, la. segreta aspirazione a far coincidere. là supposta verità con la confessione, a « convincere di reità » l'accusato. E' un residuo di superstizioni remote. Ancora oggi, più di quanto non si creda, l'ostinazione dell'imputato nel protestarsi innocente appare, di per sé, immorale; sembra indizio di una maggior pravità, di una quasi diabolica protervia nel male. E' una strada pericolosa, che può metter capo al principio che « il fine giustifica 1 mezzi >; cosi come un tempo conduceva alla legittimazione — morale e perfino religiosa — della tortura. Ora, il primo argomento che si può addurre — ed è stato infinite volte addotto — contro questa mentalità sorpassata, è che proprio dal perseguimento con tutti i mezzi (non esclusa la tortura) della confessione deriva spesso l'errore giudiziario. E' rimasto celebre, fra tutti, il caso del Fornaretto che, torturato, aveva confessato un delitto di cui era innocente, e per questo era stato messo a morte. E il monito che, dopo di allora, i giù dici veneziani si sentivano rivolgere, allorché si ritiravano per pronunciare la sentenza — recordéve del poero fornèr —, anche i giudici d'oggi dovrebbero sempre rimormorarselo nelle loro coscienze, di fronte a confessioni non suffragate da sicuri riscontri obiettivi. Ma non è solo questo, e cioè la necessità di evitare l'errore giudiziario, che deve trattene re l'inquirente e il giudicante dalla spasmodica idolatria del la confessione, da conseguirsi "a ogni costo. E* anche, e vorremmo dir soprattutto, il rispetto dell'individuo, della sua dignità, di uomo < persona e non cosa > come diceva Beo caria. Addurre contro la tortura l'argomento della sua inidonei tà tecnica non basta. Dobbiamo premettervi quello della sua abiezione morale. E ciò che si dice per la tortura, e che oggi tutti sono disposti ad ammettere, vale per ogni al tra forma, anche larvata, di trattamento inumano, di coartazione o di suggestione, che tenda a fiaccare la volontà dell'individuo, o a insidiarne la mente: vale per ogni artificio sa messinscena, ogni inganno, ogni frode. E qui potremmo ricordare le misurate ma ferme parole della Corte di Cassazio ne per il caso Egidi, o lo sdegno di Achille Battaglia, nel suo ultimo libro, per certi < vergognosi trucchi di polizia > rivelati da un altro processo d'Assise. La sentenza del Tribunale di RedddssncG Roma ha sentito tutto questo; e lo ha sobriamente richiamato, ammonendo che non si debbono mai < travalicare i limiti che l'ordinamento giuridico pone a salvaguardia dei diritti d! libertà di tutti i consociati > Si tratta dunque, nell'ambito del nostro diritto positivo, di un problema di libertà, di habeas corpus, c La pienezza del' mondo morale coincide con la pienezza della libertà >: non sono le parole di un filosofo, ma dì un giurista, Giuseppe Montalbano, che alla confessione nel diritto vigente ha dedicato un ottimo studio, pubblicato di recente dall'editore Jovene. E sul terreno delle riforme a venire, de iure condendo, che cosa dobbiamo pensare dei mezzi scientifici intesi a saggiare la veridicità dell'imputato, o a provocarne la confessione anche contro la sua volontà? Si è fatto un gran parlare, e in altri paesi anche un limitato impiego, del lie-detector, o « rivelatore della menzogna» (che registra le reazioni emotive dell'interrogato) e della narcoanalisl o <siero della verità» (che consentirebbe una specie di € radiografia mentale » dell'imputato). Sembra che, in linea tecni¬ cadistdicidestrilapriscdiconocoEpozicunnchlinfoodl'ddtomerinrIlIlllllIIIIIIflIIIIIIIIIIIIIIIIIIIMIIIIIMIIllllllllllllllM ca, questi mezzi siano ancora di esito assai dubbio, e si prestino a gravi incertezze, o addirittura a grossolani equivoci. Ma quand'anche, per virtù del progresso scientifico, questo margine di dubbio venisse ridotto e praticamente annullato, sussisterebbe pur sempre il limite invalicabile del rispetto dovuto a ogni coscienza d'uomo. Ed è quel che diceva, non da giurista, ma con parole che un giurista non può non sottoscrivere, poco più di un mese fa Enrico Emanuelli su questo giornale. Riforme, certamente, s'impongono; ma non tanto l'adozione del lie-detector o del csiero della verità», quanto un radicale miglioramento del nostro sistema processuale, che escluda gli < abusi di polizia », e garantisca la genuinità della confessione. E la riforma, secondo noi, dovrebbe orientarsi in questa duplice direzione: immediatezza dell'interrogatorio dell'arrestato da parte del giudice; diritto dell'arrestato di essere assistito da un difensore fin dal primo interrogatorio. Possiamo essere certi che, dopo queste riforme, le confessioni diminuiranno di numero; ma varranno assai di più. A. Galante Garrone ambivclprcdgsdcLrdccrtvlnvMIfisfilMIIIIIIIIIIIIIIIIIlllllIIIIIIIIIl IMIIIIIM1ll1IMMII

Persone citate: Achille Battaglia, Egidi, Enrico Emanuelli, Filangieri, Giuseppe Montalbano, Salvatore Giallombardo

Luoghi citati: Roma, Tivoli, Venezia