Quando un italiano vncerà la Sanremo? di Vittorio Varale

Quando un italiano vncerà la Sanremo? Vittox*Mg 3sts*stM2iGx*G in serie Quando un italiano vncerà la Sanremo? La corsa richiede non soltanto forza, ma anche intelligenza e rapidità di riflessi - L'esempio di Bailetti, l'unico a tentare il successo per distacco - Van Looy ha causato la sconfitta di molti (Dal nostro inviato speciale) Sanremo, 20 marzo. Ci sì sente chiedere da varie parti: «Visto che anche stavolta la Milano-Sanremo è toccata ad uno straniero, che cos'è che manca ai nostri corridori che .gl'impedisce d'arrivar primi, se invece, anche dopo il tramonto di Coppi e di Bartali, essi son riusciti a vincere fior di corse davanti agli stranieri — e non soltanto in Italia, ma anche il Tour? >. La risposta che diamo potrà far sorridere per il suo schietto tenore lapalissiano, ma non se ne trova una diversa: ed è che se gli italiani non vincono è perché di volta in volta gli stranieri risultano più forti. E più intelligenti, più furbi anche. E' proprio questa la ragione validissima, se non determinante della tradizione dei successi stranieri che ha avuto ieri una nuova conferma (la nona consecutiva) dopo la vittoria di Loretto Petruccì nel 1953. Non diciamo che Bailetti, il migliore ieri dei nostri, e bravissimo sotto ogni rapporto, meriti di esser trattato come personaggio scarsamente intelligente. No, il discorso è di retto ad altri. L'atletico corri' dorè veneto non ha commesso alcun errore; si è comportato in tutto e per tutto come doveva comportarsi, specialmente nella scelta del momento in cui, a Loano, vedendosi arrivar addosso i quaranta del primo gruppo inseguitore di lui, di Brugnami e di Schroeders, scattò di forza e ripartì per la sua solitaria, e sfortunata, cavalcata che sarebbe durata 60 chilometri, fino al piede del Poggio. « Colpi » del genere andati a buon fine, la storia della « San remo » ne conta parecchi. Per limitarmi a quelli maturati, e iniziati, nella identica località e nelle stesse circostanze (ma non c'era la salita del Poggio nel finale) ricorderò quello di Bovet nel '32, quello di Del Cancia qualche anno prima della guerra. Di senso della corsa, d'intelligenza professionale, Bailetti ne aveva già dato una prova nella mattinata (assieme a Daems, del resto); e fu quando, tra Voghera e Tortona, ebbe l'accortezza di venirsene via dal gruppone di Van Looy per andar ad ingrossare la pattuglia dei fuggitivi. Se si pensa che la corsa rimase praticamente nelle mani di costoro che via via s'erano raggruppati nella scia del primo tentativo dovuto a Zoppas già a pochissimi chilometri dal «via», ancora una volta è dimostrato che niente di più monotono si ripete nella « storia» di questa corsa; e cioè ch'è sempre la fuga iniziale a deciderne la sorte e che il vincitore è invariabilmente uno di quelli che, in luogo di starsene cauto e vigilante nel gruppo dei « favoriti » a farsi la guardia l'uno con l'altro, pigia forte sui pedali e corre a raggiungere gli audaci che sono in fuga. Quello, insomma, che mettendosi a pensare se gli convenga restare a sorvegliare questo o quel « favorito » (come ieri un Van Looy evidentemente in cattiva giornata), oppure di partirsene allo sbaraglio, sceglie la seconda via. E non perché questa sia la via dell'audacia sconsiderata e perigliosa, sebbene perché, appunto per l'esperienza passata e i precedenti, è la sola da scegliere. Tant'è vero, che due corridori che pur avevano la loro chance, dico Ronchini anche lui in pianura, e poi Pambianco sul Turchino, pensarono di fare come Daems e Bailetti (se poi, in riviera, entrambi cedettero, questa è un'altra storia, riguarda le loro gambe che fecero cilecca, non il cervello). Si deve perciò ritenere che proprio l'intelligenza abbia fatto difetto ai nostri corridori che, per la classe che hanno e per i suffragi che raccoglievano alla vigilia, sembravano in grado di arginare l'offensiva degli stranieri, e dare al ciclismo italiano la soddisfazione che merita. I nomi di questi « falliti » non occorre farli, sono noti a tutti gli sportivi. Ridotta all'osso, questa, mi sembra, è la lezione che scaturisce da quest'altra « Sanremo » vinta da uno straniero. Se un Defilippis, se un Nencini, se un qualche altro di nome come Carlesi (sempre che, s'intende, in piena forma e carichi di forza) avessero imitato Ronchini e Pambianco quando sì portarono all'avanguardia, al momento buono, avrebbero avuto qualcosa da dire circa la vittoria: o andandosene via con Bailetti o sostituendosi a Daems Invece, hanno preferito il ruolo delle vittime, sia per la loro indecisione, sia perché impastoiati nel gioco di Van Looy che, non senten dosi in forze, li ha trascinati con sé a fondo. Vittorio Varale

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