Depongono oggi i quattro Irati personaggi-chiave della fosca vicenda di Francesco Rosso

Depongono oggi i quattro Irati personaggi-chiave della fosca vicenda SI APRE LA FASE PIÙ' ACCESA AL PROCESSO DI MAZZARINO Depongono oggi i quattro Irati personaggi-chiave della fosca vicenda Gli interrogatori dei tre imputati laici non hanno chiarito le responsabilità : sono reticenti per paura della matia ? - Forse i religiosi potranno fornire qualche luce, ma anch'essi sembrano parlare un linguaggio diverso da quello della legge e dei giudici - L'ordine e le date dei crimini, e soprattutto il suicidio in carcere dell'ortolano Lo Bartolo (preannunciato da fra' Agrippino pochi giorni prima) formano una catena di pesanti indizi - La tesi della difesa per spiegare le complicità dei monaci con i banditi «(Dal 'nostro inviato speciale) Messina, 19 marzo. Esaurito il prolopo con Z'inrerrojrnrorio dei tre imputati laici, il processo di Messina entrerà domani nella fase aaìda, con i quattro monaci nel pretorio a sostenere l'ondata di curiosità, a difendersi dall'insi¬ B11111111111111 m 1111 ■ 1 iiiiiiMiiiiiiiMMiriiii rti 111 ■ il 11 dia delle domande indagatrici. Sarà una schermaglia appassionante, ma — si può temere — poco concludente: giudici e monaci parlano Unguaggi troppo diversi per trovare un punto d'incontro. In istruttoria fra' Carmelo disse al magistrato: 11111 ■ 1 iiniiiiiii t itriiii 1111 n 11 [ 11 ; 1111111111 n 11 n 710 in qualità di esattori. A quel tempo, fra' Carmelo aveva già superato gli ottanta anni, viveva più nel mondo che nel convento, era un predicatore assai ricercato in Sicilia: è pensabile . ch'egli ignorasse di commettere un delitto quando andava dalle vittime a sollecitare il pagamento delle taglie imposte dai malviventi! Se cosi fosse, bisognerebbe concludere con i difensori che questi quattro monaci hanno l'innocente candore dei fanciulli ignari del bene e del male, un candore che li induceva a scambiare per carità cristiana il crimine più turpe, il ricatto. L'accusa è di opinione differente, gli indizi raccolti inducono a sospettare che i monaci non fossero poi tanto ignari della legge. Alla, signora Cannada. che gli con/teigtiava .il prezzo del ricatto, fra' Carmelo domandò con sospetto: « Non avrà segnato i numeri di serie delle banconote, spero ». Inoltre, le confessioni cui si abbandonarono i frati non furono schiette, immediate; avvennero per gradi, con l'aggiunta di particolari nuovi ogni volta che le vittime rivelavano alle autorità le crudeli persecuzioni cui erano sottoposte. La vicenda delle estorsioni durò oltre due anni, troppo tempo per sostenere l'ignoranza della legge, o la paura che i malfattori incutevano ai poveri frati. Incominciò la sera del 6 novembre 1956, con due fucilate esplose nella cella in cui frate Agrippino studiava. I carabinieri non giunsero mai a scoprire chi avesse attentato alla vita del monaco e alla fine il giudice istruttore concluse che frate Agrippino aveva simulato l'aggressione per prepararsi l'alibi; i malfattori 10 avrebbero ucciso se non avesse obbedito ai loro ordini. Il 19 marzo 1957, il farmacista Ernesto Colajanni ricevette la prima lettera anonima con la richiesta di dite milioni, pena il - rapimento del figlioletto e l'uccisione della sorella. Chiamato telefonicamente, frate Agrippino accorse dal farmacista, lesse con attenzione la lettera ed esclamò: « Ci sono molti errori ». Poi si informò se il bambino andava a scuola accompagnato, o da solo. Alcuni giorni dopo, fu incendiata la porta della farmacia ed il sollecito frate Agrippino, subito accorso, rimproverò il dottor Colajanni che esitava a pagare. Il dott. Colajanni pagò un primo milione, sperando di essere lasciato in pace. Le lettere continuarono a giungere metodicamente, con la richiesta del secondo milione. Il dott. Colajanni pagò ancora; mezzo milione fu consegnato dalla sorella del farmacista a frate Agrippino nel confessionale della chiesa parrocchiale di Mazzarino., Stanco di tante persecuzioni, il dott. Colajanni mandò a chiamare frate Vittorio, guardiano del convento, e dopo aver pronunciato una pesante accusa, gli domandò che cosa atteri' deva a trasferire frate Agrippino che da oltre due anni era in contatto con i banditi. Fra' Vittorio si strinse nelle spalle, telefonò al Padre provinciale di Siracusa e trasmise la sconcertante ambasciata al farmacista: «72 Provinciale dice che lei è libero di agire come crede ». 11 dott. Colajanni non fece nulla; anzi, quando la rete banditesca fu_ scoperta, rifiutò di consegnare le lettere ricattatorie e di firmare le dichiarazioni fatte al magistrato. Temeva ancora rappresaglie. Mentre avvenivano le estorsio7ii al dott. Colajanni, i frati correvano ad esigere le taglie imposte al loro confratello padre Costantino, che doveva ricorrere al pro-vinciale dell'Ordine per ottenere il mezzo milione che gli era stato imposto di pagare. Correvano dal padre guardiano del convento di Gela cui era stato richiesto altro mezzo milione, pena la distruzione del monastero e lo sterminio dei frati; correvano in casa Cannada a sollecitare l'anziano, ricchissimo possidente a pagare i dieci milioni richiesti dai banditi. L'ostinato agricoltore non volle pagare e a fra' Carmelo che insisteva rispose: « Ci penserà Dio a togliermi dai pasticci ». Il vecchio monaco con tono di rimprovero gli rispose: «Che Diu e Diu ciamu a pinzari nuantri ». Morto il cav. Cannada, la vedova continuò a subire il ricatto coti la minaccia che gli avrebbero ucciso il bambino; pagò un milione dei dieci richiesti ricorrendo perfino a un prestito agricolo perché diceva di non avere « Non ho mai pensato che tali circostanze intaccassero la min onorabilità, e dignità di sacerdote, né immaginavo si potesse sospettare la mia connivenza con i malfattori ». Le « circostanze * sono le estorsioni alle quali fra' Carmelo ed i suoi confratelli parteciparo- n n 1111111 n 111 n 1 : 1111111111 > n 1 ! 1 m 111111111:1 ■ denaro liquido. « ilfa lei ha' le terre » rispondeva insinuante fra' Carmelo, oppure: « Ma lei ha incassato otto milioni con le olive*; e soltanto dopo aver controllato che l'incasso era molto infe? riore disse che i banditi si accontentavano di un solo milione. Trascorse un anno da quel 25 maggio 1958, giorno in cui fu ucciso il cav. Cannada, e la sera del 25 maggio del '59, la guardia comunale Giovanni Stuppia fu impallina-ta a lupara quasi dinanzi a casa sua. Le indagini portarono all'arresto di Gerolamo Azzolina, Filippo Nicoletti e Giuseppe Salemi, i tre imputati laici interrogati nei giorni scorsi. Si scoprì che Carmelo Lo Bartolo, l'ortolano del convento, era il demonio della banda, e si scopri il ruolo sostenuto dai cappuccini nel fosco intrigo che affliggeva Mazzarino da oltre due anni. Carmelo Lo Bortolo fu arrestato a Genova il 16 giugno 1959 e tradotto a Mazzarino, dove giunse tre giorni dopo. Occorre fare attenzione alle date, perché hanno un valore essenziale nella posizione dei frati. Interrogato, disse che aveva indotto i frati a partecipare alle estorsioni perché glielo avevano imposto cinque sconosciuti, I nomi di frate Agrippino, di fra' Venanzio e fra' Carmelo ricorrevano continuamente nei suoi discorsi e anche i monaci furono interrogati. Fra' Agrippino disse che l'ortolano del convento gli aveva confidato di avere sotterrato nell'orto la macchina da scrivere che i banditi gli avevano dato per battere le lettere di estorsione. Carmelo Lo Bartolo negò dicendo: « Che me ne facevo di una macchina da scrivere che non saprei usare ». Poco dopo, frate Agrippino raccontò al pretore di Mazzarino che Carmelo Lo Bartolo, prima di essere ar¬ restato, gli aveva detto: « Sa scoprono che sono l'autore dell'attentato al vigile Stuppia e delle estorsioni a Can. nada e Colajanni, mi uccido piuttosto di finire in galera*. Questa, dichiarazione fu fatta dal religioso al magistrato il 28 gnigno; il giorno suocessivo Carmelo Lo Bartolo fu trasferito nel carcere di Caltanissctta e tre giorni dopo, il 2 luglio 1959, s'impiccò in modo singolare, con una striscia di tela strappata al lenzuolo e legata ad un sostegno della branda alto poco più di un metro dal pavimento. Per uccidersi, dovette strisciare sul pavimento e tirare con feroce determinazione di morire. Quel suicidio, preannunciato a frate Agrippino, rimane la pagina oscura di questa vicenda, un'ombra fosca che grava anche sul processo. Mercoledì scorso, mentre era seduto dinanzi ai giudici; Filippo Nicoletti, il più giovane della banda, un fanciullo dall'occhio torvo, gridò all'improvviso: « Signor presidente, ho paura. Carmelo Lo Bartolo è morto ». Non ha voluto dire altro, ma nelle sue parole c'era il terrore di fare la fine dell'ortolano del convento. Nonostante la premura d'I presidente di continuare il processo a porte chiuse, Filippo Nicoletti non disse altro, accennò solo ai < pezzi grossi che sono fuori* e che potrebbero nuocere alla sua famiglia. E' probabile che il ragaazo-bandito abbia speculato sulla atmosfera di paura che ha chiuso tante bocche per molto tempo, che la rete banditesca della mafia da lui evocata sia soltanto una macchinazione difensiva; ma non si-può escludere che la paura sia reale, determinata da tenebrosi personaggi ancora in libertà e assai più, potenti dei tre banditi in gabbia e dell'ortolano suicida. Francesco Rosso

Luoghi citati: Can., Genova, Mazzarino, Messina, Sicilia, Siracusa