Imperturbabili sul banco degli assassini i quattro frati del convento di Maziarino

Imperturbabili sul banco degli assassini i quattro frati del convento di Maziarino Alla Corte d'Assise sono imputati di concorso in omicidio, di ricatti, di estorsioni Imperturbabili sul banco degli assassini i quattro frati del convento di Maziarino L'ingresso nell'aula senza manette, per una disposizione del Concordato - Le enigmatiche figure dei monaci, avvolti nel saio francescano che li avrebbe voluti intrepidi nella povertà e nella umiltà • Già delineata la tattica della difesa: far ricadere tutta la colpa soltanto sui tre imputati laici - Gli avvocati hanno chiesto che sia rifatta l'istruttoria - Il processo per i delitti di Mazzarino si discute a Messina per «legittima suspicione» - Ma attorno ai testimoni si sente aggirare la mano della mafia (Dal nostro inviato speciale) Messina, 12 marzo. Quattro monaci sul banco degli imputati sono spettacolo conturbante, anche se i protagonisti della singolare vicenda ostentano una limpida certezza di assoluzione. Tn attesa che i frati entrassero nel recinto solito a ospitare uomini disperati e violenti, uno stuolo di avvocati andavano perfezionando la tattica difensiva, che consiste nell'isolare i tre imputati laici sui quali far ricadere poi tutte le responsabilità. Due giovani avvocati sono stati distaccati dal collegio della difesa e passati a patrocinare Fra Sebastiano, Padre provinciale dei Cappuccini, e Fra Costantino, costituitisi parte civile contro gli imputati laici, trascurando di aver consegnato le somme del ricatto a due loro confratelli. Il dott. Ernesto Colajannl, a sua volta, si è costituito parte ci vile sempre e soltanto contro gli imputati laici anche se, in due riprese, consegnò due milioni ai frati ora seduti sul banco dell'accusa. Il farmacista Colajanni rifiutò di consegnare al giudice istruttore le lettere ricattatorie che aveva ricevuto. Soltanto la signora Eleonora Cannada, cui fu ucciso il marito si è schierata contro tutti gli imputati, ma non è da escludere che, proseguendo il processo, anche il suo atteggiamento si ammorbidisca nei confronti dei monaci. La decisione del Cappuccini di tutelare l'integrità morale dell'Ordine monastico è esemplare, nulla hanno trascurato, perché i quattro confratelli, accusati di turpi ribalderie, abbiano i più solidi ap poggi possibili da un'agguerrita difesa. Mentre il Padre provinciale distribuiva ai giornalisti un opuscolo scritto da un sacerdote in difesa del frati di Mazzarino, gli avvocati realizzavano uno schema di fensivo sottile piazzando nei punti nevralgici del processo uomini e posizioni giuridiche da cui potrebbe scaturire un nuovo indirizzo per questa vicenda giudiziaria. ■ '.<■; Se il. farmacista Colajanni fosse sentito dalla Corte d'Assise come testimone, probabilmente avrebbe atteggiamenti che non può assumere come parte civile contro i tre mal fattori laici. E in posizione poco dissimile, si troveranno il Padre provinciale dei Cappuccini e Fra Costantino, caduti nelle maglie dei ricattatori attraverso i loro confratelli. All'inizio, non era facile rendersi conto di questo schieramento e solo dopo l'ingresso degli imputati in aula si potè comprendere che il processo subiva una svolta ancor prima che incominciasse. I primi ad entrare furono gli imputati laici, manette ai polsi e una ferrea catena che li legava l'un all'altro. Apriva la fila degli ammanettati Filippo Nicoletti, che iniziò la carriera criminale a 17 anni e la concluse che ne aveva venti. Era il più inesperto, ed appena 1 carabinieri lo acciuffarono cantò come un pappagallo ciarliero. Lo seguiva Gerolamo Azzolina, giovane anche lui, _ma più scaltro e sanguinario. Chiudeva il corteo Giuseppe Salemi, il più anziano, coprendosi il volto con un fazzoletto per difendersi dai fotografi. I frati entrarono poco dopo, senza manette per una disposizione del Concordato con la Chiesa, avvolti nel saio dell'umiltà francescana che li vuole intrepidi nella povertà. Si misero in fila, quasi in posa dinanzi agli apparecchi fotografici, imperturbabili. Non si sentono colpevoli; essere stati soltanto intermediari tra i delinquenti e le vittime, incitando queste ultime a pagare il prezzo del ricatto, a loro avviso non è colpa. Fra Vittorio era il più vicino al tavolo della Corte e restava mansueto, le mani nascoste nell'ampio giro del saio informe, la barba nera ben pettinata, lo sguardo assente. E' accusato di aver scritto siilla macchina del convento almeno due lettere minatorie. Accosto gli era Fra Carmelo, più che ottuagenario, la candida barba sparsa come nevicata sulla ruvida opacità della tonaca, una calotta nera sull'integrale calvizie, spesse lenti che gli annebbiavano lo sguardo ancora curioso di tutto. Ai Cannada, che gli mostravano le lettere con cui i malviventi chiedevano dieci milioni di taglia, egli domandò: «Quali intenzioni avete? >. Poiché la signora aveva esclamato: «Lasciamo fare a Dio>, egli ribatté impetuoso: «Lasci stare Dio, dobbiamo pensarci noi >. Il cav. Angelo Cannada non volle pagare e fu ucciso, sia pure per fatale coinci denza. Rimasta vedova, la signora Cannada fu ancora ricattata per due milioni. Disse a Fra Carmelo che non li aveva ed il Cappuccino, insinuante, la consigliò di vendere un po' di terra. Venne il raccolto delle olive, e dopo aver controllato l'effettivo incasso, Fra Carmelo disse che avrebbe parlato coi ricattatori per sentire se si accontentavano di un solo milione, somma che fu accettata. Accanto al vecchio Cappuccino, sedeva Fra Venanzio che concorse a esigere parte dei ricatti; giovane ànch'eglì, vigoroso, la folta barba, nera e. lucida, gli sguardi acuti come punte d'acciaio ed una certa spavalderia nel comportamento. Ultimo della fila era Frate Agrippino, giovane, enigmatico, sconcertante. A Roma, dove studiava teologia, fu af-, flitto da disturbi nervosi e lo rispedirono a Mazzarino per ritrovare serenità nell'aria dell'isola-natia. Pochi mesi dopo, quando già era amico di Carmelo Lo Bartolo, ortolano del convento, accadde qualche cosa di strano nella sua cella. Uno sconosciuto sparò due fucilate a lupara dopo aver tagliato i fili telefonici del convento. « Simulò il reato per crearsi un alibi > sostiene l'accusa. « Fu scelto dai criminali per piegarlo alla loro volontà perché malato di nervi, e quindi debole > sostiene la difesa. Qualche mese dopo, mentre Fra Costantino festeggiava il venticinquesimo anniversario della sua vita monastica, Frate Agrippino gli disse che quelle fucilate erano destinate a lui; o pagare un milione, o le sue anziane sorelle avrebbero fatto una brutta fine a Mazzarino. Fra Costantino disse che avrebbe parlato al Padre provinciale, ma Fra Agrippino lo dissuase. « Se mai >, lo consigliò, < parlagliene in confessione costringendolo al segreto ». La paura che. i delinquenti incutevano ai frati doveva avere il volto della ferocia, e non dovevano essere soltanto i tre « scassapagliari > che ora siedono nell'altro settore del recinto a terrorizzarli, ma qualcuno molto più in alto nella scala della società mafiosa. • Lo schieramento degl'imputati era ben distinto, verso la Corte i monaci, verso il pubblico i laici; in mezzo, a sottolineare la distinzione, tre carabinieri in fila vigilavano per evitare contaminazioni o eventuali baruffe. Anche in aula le distinzioni erano ben nette; un grande parterre di difensori, fra i quali alcune celebrità del Foro nazionale, ognuno coi propri sostituti, per i monaci; un solo avvocato per ciascuno degli altri tre imputati. Al posto dei carabinieri, che separavano i due schieramenti, doveva esserci Carmelo^ Lo Bartolo che sì uccise inopinatamente nella propria cella In una torrida sera di luglio. Era l'anello di congiunzione tra i monaci ed i malfattori laici, e forse era qualche cosa di più, come si vedrà, di un criminale che agiva in proprio. Alla fine è entrata la Corte, con tre signore nella giuria. Il presidente Tommaso Toraldo, barone di Tropea, pacato gentiluomo che ha infrenato con fermezza le esuberanze verbali degli avvocati, ha subito azionato il meccanismo del processo con la costituzione delle parti e l'inizio degli incidenti procedurali che hanno esaurito l'intera udienza. Non si è detto molto in questa prima giornata, ma quel poco è sufficiente a chiarire non tanto la vicenda giudiziaria, quanto l'ambiente in cui si sono svolti gli avvenimenti criminosi. A Messina siamo lontani dalla atmosfera greve di Caltanissetta, dove un gesto, una parola, uno sguardo hanno significati che sempre involgono interferenze sconcertanti; U processo è stato mandato qui proprio per liberarlo dai sospetti di eventuali pressioni esterne, perché in questa parte di Sicilia la mafia non è mai esistita e non può esercitare influenze sui giudici. Alcuni sostengono che tenterà di inserirsi per vie esterne, e forse è possibile; i testimoni che verranno a deporre dovranno poi tornare a Mazzarino, Barrafranca, Caltanissetta, luoghi in cui spira aria poco propizia a chi dimostra" eccessiva fiducia nella giustizia togata. Ma è poi davvero così potente la mafia di Mazzarino e di Caltanissetta? cnsnIIMlllllMlitlMIIIIMllllMJ[lltlMI>l1ll1lirillll»Illltll Sorse a suo tempo il dubbio che Carmelo Lo Bartolo fosse stato consigliato, se non aiutato a uccìdersi. Un giovane cronista palermitano, buttatosi allo sbaraglio con improvvido entusiasmo, scrisse il nome di alcuni notabili di Mazzarino e fu condannato a 18 mesi di carcere e 2 milioni per risarcimento danni; avvilito, il giovane cronista Cosimo Cristina andò a farsi maciullare dal treno. Il suicidio di Carmelo Lo Bartolo è argomento scabroso, tuttavia se ne riparlerà in questo processo e già oggi si sono avute le prime avvisaglie sul peso determinante che il fantasma dell'ortolano può ancora esercitare. Il primo a sollevare eccezioni è stato l'avv. Giuseppe Alessi, difensore di Frate Agrippino, che in una lunga disser¬ tnizsdssuscvccpcltpl<IIIII[llllllllllllII1llltllllllI11IIIIIIl(ltlllllll!MFillM tazione si è doluto che i monaci siano stati trattati in istruttoria come imputati senza averne ancora la qualifica siano stati sequestrati i loro depositi in banca, la corri spondenza e la macchina da scrìvere del convento senza le garanzie di legge. Ha chiesto una nuova perizia dattilografica sulle lettere ricattatorie spedite alle vittime dai malfattori ed insistito perché l'accusa di simulazione di reato fatta al monaco debole di ner vi per le due fucilate nella cella, sia cancellata. Il difensore di Filippo Nicoletti ha chiesto una perizia psichiatrica per il suo cliente che avrebbe zii e cugini ma lati di mente, e poi ha parlato l'avv. Gerolamo Bellavista, patrono della vedova Cannada, per chiedere che siano respin- snMIIICi:illMIIir3MI!MllMIIIllllllItMrillllrl) 1!lll te le richieste dell'avv. Alessi. La polemica è diventata rovente quando ha incominciato a parlare l'avv. Lino Sorgi, patrono del figlio della signora Cannada. Alcuni difensori dei monaci hanno sottolineato l'atmosfera anticlericale che incomincia a delinearsi, pre parandosi a dare una colora zione politica al processo. E' prematuro dire se la vicenda giudiziaria scivolerà sul piano inclinato della politica; certo è che tutti, difensori e patroni di parte civile, hanno intenzione di addossare alla mafia la responsabilità dei cri mini che hanno afflitto Mazzarino per circa tre anni; i primi per presentare i monaci come succubi di un'atmosfera di terrore, i secondi per sostenere che la mafia ha agito per liberarsi da testimonianze pericolose. L'avv. Sorgi ha fatto richieste che, ove fossero accolte dalla Corte, rimetterebbero in discussione tutta l'istruttoria. Ha chiesto che siano citati come testimoni il direttore del carcere di Caltanissetta, il capo delle guardie di custodia ed i medici che fecero l'autopsia di Carmelo Lo Bartolo, per dire come si comportò il suicida prima di uccidersi, e come si uccise. Nel torrido pomeriggio di luglio, Carmelo Lo Bartolo assistè alla proiezione di un film in carcere quindi, tornato in cella, strappò un lembo di lenzuolo, preparò con ogni cura la branda per la notte, fece un cappio con la striscia di tela, l'appese all'inferriata e si impiccò. Ma l'inferriata era tanto bassa che per uccidersi egli dovette rannicchiarsi, quasi strisciare sul pavimento e tirare con esasperata voglia di morire. Carmelo Lo Bartolo era vigoroso e forte, si vantava di possedere bicipiti grossi come le cosce di un mulo, e riuscì a strozzarsi con una benda di tela. L'orrore e il rimorso per il danno arrecato ai frati che aveva coinvolto nei suoi delitti, dovevano avere profondità abissali nella sua coscienza. Il Procuratore generale dott Salvatore Di Giacomo ha confutato le teorie dell'avv. Alessi ed ha, invece, appoggiato la richiesta dell'avv. Sorgi per indagare sullo stato d'animo di Carmelo Lo Bartolo prima del disperato suicidio. Doveva ribattere l'avv. Francesco Carnelutti, difensore dell'ottuagenario Fra Carmelo, ma era già tardi e la Corte ha rinviato l'udienza a domani per l'ultima eccezione e le decisioni sulle molte istanze. Francesco Rosso lll<MI(Ltllllfl1llllilllFllll1IIIIMIMl>tMIMll(IIIIIIB I quattro frati sul banco degli imputati. A cominciare da sinistra: fra Agrippino, fra Venanzio, fra Carmelo (83 anni), fra Vittorio (Telef.) La folla nell'aula delle Assise di Messina durante un breve intervallo (Telefoto)