Domani alla Corte di Messina la sconcertante vicenda dei quattro frati di Mazzarino imputati di banditismo

Domani alla Corte di Messina la sconcertante vicenda dei quattro frati di Mazzarino imputati di banditismo MJnn storia allucinante nel più chiuso angola «felici Sicilia Domani alla Corte di Messina la sconcertante vicenda dei quattro frati di Mazzarino imputati di banditismo Ogni mattina i monaci dicono Messa in carcere, meditano e pregano - Eppure avrebbero organizzato estorsioni in lega con briganti da strada - Un possidente fu ucciso con due fucilate, un vigile impallinato a lupara, l'ortolano del convento si è impiccato - Ma nessuno parla, i ricchi minacciati pagano in silenzio come se accettassero di venir derubati per volontà del destino - Un ambiente squallido e tetro, improntato da secoli di oppressione, miseria, ignoranza (Dal nostro inviato speciale) Messina, 10 marzo. All'origine della vicenda dei frati di Mazzarino c'è la miseria, nel convento e fuori. Non attuale, immediata povertà di pane, ma ancestrale miseria morale generata da fame, ignoranza e oppressione antiche, avrebbero coalizzato, secondo l'accusa quattro pregiudicati e quattro monaci in attività ribalde culminate in un omicidio. Nel carcere di Messina dove attendono il processo che incomincerà lunedì, i quattro monaci celebrano la Messa ogni mattina, trascorrono le ore del giorno in meditazione e preghiera, rivelano una candida sicurezza nel riconoscimento della loro innocenza. Questi atteggiamenti, il ruvido saio che indossano, simbolo di incorruttibile povertà volontaria, turbano anche gli osservatori più freddi i quali, pur convenendo che un sacerdote possa individualmente tradire il suo ministero, rimangono perplessi dinanzi a quattro monaci pervicacemente associati nel delitto. La perplessità è giustificata, nonostante le prove contro i cappuccini, il loro innegabile intervento nelle estorsioni, i depositi in banca a loro nome contro la regola dell'Ordine che vieta ai frati di possedere ricchezze. Il processo dovrà stabilire se i monaci hanno agito sotto l'impulso della paura, come essi .sostengono, o se hanno volontariamente partecipato alle azioni delittuose, come afferma l'accusa. Giungere alla verità non sarà facile, alla sanguinante catena di delitti manca l'anello centrale rappresentato da un uomo che al momento opportuno scomparve dalla scena con \\n suicidio in carcere che induce alla riflessione. ' Benché noti, è opportuno riassumere i fatti. La sera del 25 maggio 1958, il cav. Angelo Cannada, ricchissimo possidente, tornava da una fattoria in auto con la moglie, il figlioletto, l'autista e la cameriera; fu prelevato da due uomini mascherati che lo trascinarono in un avvallamento, lo misero carponi e dopo averlo percosso gli spararono, si noti, due fucilate nelle natiche. La intenzione di intimidire, non di uccidere, era evidente, ma un proiettile gli tagliò l'arteria femorale e il cav. Cannada morì dissanguato. Dalle indagini risultò che mesi prima egli aveva ricevuto lettere anonime con le quali gli si imponeva di versare dieci milioni a frate Carmelo, ottantenne cappuccino molto amico dei Cannada. Interrogato dai carabinieri, il frate dichiarò che una sera, mentre rientrava in convento, fu avvicinato da uno sconosciuto intabarrato il quale gli domandò se il cavaliere non gli aveva dato nulla per lui. Rispose di no e il giorno seguente, tornato in casa Cannada, aveva saputo delle lettere con la richiesta dei dieci milioni. Le indagini si impaludarono nell'acquitrino dell'omertà, finché un anno dopo, il 5 maggio 1959, il vigile urbano Giovanni Stuppia fu impallinato a lupara; lo Stuppia confidò ai carabinieri che a sparargli era stato certamente Girolamo Azzolina, un giovinastro pregiudicato. Arrestato, l'Azzolina fece il nome di Giuseppe Salemi e poi quello di Filippo Nicoletti. Quest'ultimo, offrì la chiave della catena di furti, rapine, estorsioni che affliggevano Mazzarino da alcuni anni, disse ai carabinieri che egli era estraneo al delitto Cannada nel quale, invece, erano implicati i suoi due amici e Carmelo Lo Bartolo, ortolano dei cappuccini. Confessarono di aver rubato greggi e mandrie a ricchi possidenti ai quali avevano inviato anche lettere di estorsione per molti milioni. Vennero alla luce fatti incredibili; gli esattori delle estorsioni erano sempre i quattro frati i quali, interrogati, sostennero di aver agito sotto le minacce del loro ortolano Carmelo Lo Bartolo che, intanto, era scomparso. Fu arrestato a Genova e tradotto a Caltanissetta. I complici da cui poteva temere vendette avevano confessato ed erano in carcere; erano ancora liberi i frati. Una notte, Carmelo Lo Bartolo si impiccò all'inferriata della sua cella; si disse che il rimorso lo aveva indotto alla disperazione. Bisognerebbe indagare se Carmelo Lo Bartolo, pregiudicato per molti crimini, era tanto'sensibile da non poter sopravvivere al rimorso; certo è che dopo la sua morte avvenne un rovesciamento di fronte, i tre. pregiudicati laici respinsero ogni accusa affermando che le confessioni gli erano state estorte con la violenza dai carabinieri. I monaci, senza pericolo di contraddittorio, sostennero che Lo Bartolo li aveva costretti a fare da esattori, minacciando di incendiare il convento, di uccidere tutti i frati ed i venticinque seminaristi loro allievi. Proseguendo nelle loro indagini, ; carabinieri scoprirono che dopo la morte di Angelo Cannada, la vedova era stata ancora ricattata con la minaccia di ucciderle il figliuolo se non avesse versato subito due milioni a frate Carmelo. Un fratello della signora parlò col cappuccino per ridurre la taglia a un milione, da versare in due rate, ma il monaco obiettò che avendo incassato otto milioni col raccolto delle olive, la vedova poteva pagare l'intera estorsione. Solo dopo aver controllato l'effettivo incasso fatto con le olive, il monaco disse che avrebbe parlato ai delinquenti per sentire se si accontentavano di un solo milione. Si accontentarono. Dalle mezze ammissioni dei frati, i carabinieri scoprirono che anche il farmacista Ernesto Colajanni aveva subito un'estorsione di due milioni, pagati dopo un tentativo di incendiargli la farmacia, e consegnati in due riprese a frate Venanzio ed a frate Agrippine Quest'ultimo, quando il dott. Colajanni gli fece leggere la missiva minatoria, seppe soltanto esclamare: «Ci sono molti errori », quasi a sottolineare la differenza fra lui, uomo colto, e l'ignorante autore della lettera. La catena di crimini si allungava, anche il padre provinciale dei Cappuccini era stato ricattato per salvare '.a vita a un monaco minacciato di morte, ed aveva versato in due rate circa un milione a frate Carmelo e frate Agrippino. Il barone Arcangelo Alù, i signori Salvatore Grassiccia, Francesco Bonanno, Giuseppe Bartoli, Vittorio Mattina, ricchi possidenti, avevano subito rilevanti furti di bestiame e ricevuto lettere di estorsione, ma nessuno aveva fiatato, come avevano sempre taciuto i Cannada e il dott. Colajanni. Tutto è venuto alla luce loro malgrado; alcuni hanno rifiutato di consegnare le lettere ricevute e nessuno finora si è costituito parte civile, non dico contro i frati, ma contro i tre pregiudicati ormai in carcere e nella impossibilità di nuocere. Soltanto la vedova Cannada si è costituita parte civile, ma non verrà a deporre in Assise. Già da questo comportamento è facile intuire l'atmosfera che ancora opprime Mazzarino, desolato paese della Sicilia interna dove i rancori individuali e sociali hanno dimensioni che sfuggono alla logica. La signo¬ ra Cannada non si è schierata contro tutti i detenuti, ma contro frate Carmelo, l'ottuagenario cappuccino che frequentava da trent'anni la sua casa ed aveva ricevuto molti benefici. Lo sdegno della signora è comprensibile, ma benché siciliana, e di Mazzarino, rivela, con questa giustificazione di essersi costituita parte civile. nummi n 11111111111111 luminil una certa incoerenza. A Mazzarino, ed in tutti i centri mafiosi, il furto e il ricatto sono accettati per timore di rappresàglie, ma anche per una distorsione mentale che induce a considerare quei reati strumenti leciti di ridistribuzione della ricchezza. Ciò è sempre accaduto nella Sicilia Occidentale, e continuerà ad accadere ; lzrqmamtzti umili ninnili iiiiinniiiinninn lasciandosi derubare in silenzio, i ricchi confermano il diritto dei poveri alla violenza. Nelle azioni dei tre delinquenti comuni guidati da Carmelo Lo Bartolo» si inserirono ad un certo momento i quattro monaci con funzione di esattori. E' quasi certo che all'inizio agirono in stato di necessità sotto la minaccia dei vio¬ niiiiininininininiinnniiiniiiiniii un lenti, ma la storia dei furti e delle estorsioni è durata più di tre anni ed è continuata ancora dopo la morte di Angelo Cannada. Non bisogna dimenticare l'origine dei frati; sono quasi tutti di Mazzarino, o dei paesi vicini, luoghi infestati dalla mafia. Provengono da famiglie poverissime dove i bimbi succhiano col latte materno i princìpi mafiosi. L'avv. Nino Sorgi, patrono della signora Cannada, sostiene che nella mente dei frati, dopo l'iniziale paura, sia penetrata la storta.idea che la loro azione avesse un fondamento di carità cristiana; essi toglievano ai ricchi e davano ai poveri, toglievano a Cannada e Colajanni, favolosamente ricchi per la dimensione economica locale, per dare a Carmelo Lo Bartolo, Girolamo Azzolina, Giuseppe Salemi e Filippo Nicoletti, affogati nella miseria brutale. Ebbero poi il torto di intitolare al proprio nome alcuni depositi bancari contro la regola dell'Ordine, ed i libretti se¬ questrati sono un grave atto di accusa. Su questi reati, altri se ne innestano, come l'attentato che frate Agrippino subì nella sua cella nel novembre del 1956, le vicende erotiche di frate Benigno cacciato dall'Ordine per immoralità; la macchina da scrivere del convento su cui sarebbero state battute almeno due delle lettere minatorie. Sono tutti argomenti che saranno lungamente dibattuti al processo di Messina nel quale, però, conterà soprattutto l'angosciante quadro ambientale in cui i crimini sono germinati, la miseria antica, l'ignoranza e la debolezza morale che danno a Mazzarino ed a questa vicenda una fisionomia sinistra. Francesco Rosso min mi immmiiimmmiimimii Pde Vidi iili itti l di Mi (Tlft) Padre Venanzio, cappuccino dei principali imputati al processo di Messina (Telefoto) ftll dll i lò l Cd i è hi t i A Mlidi db i il Frale Agrippino, secondo l'accusa, avrebbe riscosso a più riprese somme di denaro per conio dei banditi (Tel.)