Meridionali a Torino di Marziano Bernardi

Meridionali a Torino QUATTRO SECOLI DI INCONTRI Meridionali a Torino Sui terroni che la città dei bógianèn attira a migliaia ogni anno, la tv ci diede tempo fa un buon documentario. Ma adesso si vuol qui accennare a certi rapporti che corsero in passato fra italiani del Mezzogiorno di particolare levatura e l'antica capitale sabauda; sottolineando an. cora una volta lo straordinario contributo d'intelligenza fornito da costoro alla vita spirituale del Piemonte, con una vivacità di sentimenti ora cordialmente cor risposti, ora ostacolati da una mentalità retriva e sospettosa: quasi a prefigurare una situazio ne che tutti abbiamo sott'occhio, carica di problemi morali e ma teriali. D'una circostanza in un certo senso discriminante s'ha però anzitutto da tener conto; e se l'avesse assunta come caposaldo storico Raul Rossini nel suo recente libro Meridionali a Torino, «Edizioni Palatine», quelle attente e piacevoli pagine, anziché riuscire prevalentemente aneddotiche, si sarebbero arricchite d'un significato più attuale. Vale a dire che la presenza nella nordica Torino di gente nata nelle terre del sole, è da considerare dal punto di vista duna condizione essenzialmente politica: quella determinata dall'assegnazione col trattato di Utrecht della corona reale di Sicilia (poi barattata con la Sardegna) al duca di Savoia, e dal viaggio nell'isola, fra il 1713 e il '14, di Vittorio Amedeo II.. Passeranno centoquarant'anni, ed ecco ripetersi in Piemonte durante il prodigioso decennio <ica vourriano », sebbene per impul si profondamente diversi, quel processo di fusione intellettuale fra Settentrione e Mezzogiorno che l'assolutismo monarchico, aveva semplicemente abbozzato e tuttavia non senza qualche fecondò germe, al principio del Settecento. Artisti, letterati, poeti, filosofi, scienziati nativi del Sud avevan certamente lasciato ricordo fra i torinesi delle loro soste o dei loro passaggi anche nel corso del Cinque e del Seicento. A parte il severo ma giusto governo del principe napoletano Gio vanni Caracciolo, per un quinquennio luogotenente del re di Francia in Piemonte al r,empo deU'occupaz,ione « stranièra, tre volte Giordano Bruno era stato ospite di quella ch'egli aveva chiamato « la deliciosa città di Taurino ». Quanto al notissimo soggiorno di Torquato Tasso dal settembre 1578 al febbraio seguente nella casa del marchese Filippo d'Este (che non fu il restaurato palazzetto, in via della Basilica 9, sul quale si legge l'epigrafe com memorativa), se è superfluo rammentare che la famosa descrizione del giardino d'Armida nella Gerusalemme non s'ispirò affatto agli splendori del Regio Parco come a lungo si credette in seguito a una lettera apocrifa, lietissime tuttavia dovettero essere — ed anche nel Parco, soggètto poi d'un quadro di Massimo d'Azeglio — le accoglienze del duca Emanuele Filiberto al poe ta di Sorrento, tanto che questi le ricambiò col sonetto in lode del giovane principe ereditario Carlo Emanuele. Ben quasi otto anni si tratten ne a Torino il partenopeo Cava lier Marino (« cavaliere », ap punto, dei Ss. Maurizio e Lazzaro) spandendovi i fiumi della sua lirica barocca, celebrando « ... il Sol di Savoia I Invitto in guerra e generoso in pace », stringendo amicizia coi maggiori esponenti della cultura piemontese, contendendo col rimatore Gaspare Murtola (che tentò di ammazzarlo a pistolettate); e sperimentando anche per quattordici mesi il « maledetto graticcio » del carcere senatoriale dove t'aveva gettato la calunnia cortigiana irosamente accolta dall'impetuoso « Sol di Savoia », al quale il povero poeta, pur dalla prigione, giurava di volerlo « servir sempre ». La libertà venne alfine, tornò il Marino a palazzo, nuovamente onorato, ma stufo di dover « accomodare » i parti letterari di Carlo Emanuele I : « Quetto principe mi dà ogni dì delle pappolate e delle canzoni, delle quali sono oggimai sazio e stracco ». E se ne parti senza rimpianti per Parigi, pur conservando per il resto della vita, da buon napoletano senza fiele, affetto e gratitudine al suo capriccioso padrone. L'episodio è rivelatore degli umori bisbetici del potere assoluto, quando il vento che spira volge la commedia in tragedii e viceversa. Ma quello della orrenda prigionia e della pietosa morte nella Cittadella di Torino del grande storico napoletano Pietro Giannone, esaltato dagli Illuministi come polemico precursore dei diritti dello Stato laico, getta la più fosca ombra sul dispotismo sabaudo anteriore al Quarantotto, proprio in un'età che sembra aprirsi, anche in Pie monte, a una più libera cultura. Troppo indulgente è stata molta storiografia parlandoci di un Settecento piemontese definito « classico ». Proditoriamente arrestato su terra savoiarda per ordine del marchese d'Ormea in ossequio alle richieste della curia pontificia, dopo dodici anni di detenzione nelle fortezze di Miolans, di Ceva, di Torino, i! Giannone muore più che settantenne in una gelida cella, dove fino all'ultimo ha inutilmente chiesto un po' di fuoco per difendersi dai rigori invernali. Ed è l'anno successivo alla sfolgorante vittoria dell'Assietta; e la capitale subalpina, dopo Utrecht, s'e rivestita tutta delle mirabili forme architettoniche datele dal siciliano Filippo Juvarra; uno stuolo d'artisti meridionali, dal Solimena al Conca, dal Giaquinto al De Mura, dal Martinez al PifTetti, han contribuito e contribuiscono ad abbellirla, ad affinare il gusto piemontese; Francesco d'Aguirrc, anch'egli siciliano, ha studiato il « ristabilimento degli Studi Generali » nell'Università di via Po. Ma il Giannone all'altro capo della città si spegne in un tetro carcere,' reo di un delitto di libertà ideologica e politica. Verranno gli anni fatidici della libertà e della speranza, giungeranno gli esuli meridionali a Torino portandovi meravigliosa vivezza d'ingegni, i Pasquale Stanislao Mancini, i Giuseppe Pisanelli, i Raffaele Piria, i Mariano d'Ayala, i Bertrando Spaventa, i Crispi, i De Meis, i Conforti, i Massari, i La Farina, i De Sanctis, in ultimo i Poerio, i Settembrini: il fiore dell'intelligenza italiana del Mezzogiorno. Ed era. coi piemontesi, si legge nelle cronache rosee, un embrassons-nous commovente, dal caffè Florio al Nazionale. Ma il Nigra doveva intervenire perché a Bertrando Spaventa fosse aumentato di 50 centesimi il sussidio giornaliero governativo di una lira, e Francesco De Sanctis campava alla men peggio insegnando in un istituto privato (dirà poi il Croce che ad entrambi si deve ciò che di più notevole produsse il pensiero italiano dal 1850 al '60). . % M Torse il debito contrattò' da Torino — prima, durante e dopo quegli anni — con la cultura del Sud, non è del tutto saldato. E per di più quegli esuli erano espansivi, cordiali, affettuosi ver¬ ^■'■«'■•i"'' iiJi!iiiiiiEJ!Ji]Iii;itji;iiii{!!iiiji]>r so i torinesi e la città che li ospitava. « Il mio cuore è a Torino », scriveva con nostalgia il De Sanctis da Zurigo; e rievocavi malinconico le passeggiate in collina con gli amici, la modesta trattoria di « Bert » non lungi da dove abitava al numero 18 dello Stradale del Re, ora corso Vittorio Emanuele. Su quella decorosa casa neppure un palmo di lapide a ricordare la triennale dimora torinese del maggior critico letterario italiano dell'Ottocento. Anzi, la vogliono demolire per fabbricare al suo posto un palazzaccio di cemento e di vetro. Marziano Bernardi ir Mr M 11 11 11 11 11 11 II MI ] U11M 11 ITI MIM11 Mr I ti t M111111 n