Le accuse del P.M. a La Loggia per il delitto Tandoj ad Agrigento

Le accuse del P.M. a La Loggia per il delitto Tandoj ad Agrigento Mj'intruttoriu suti'uecisione del commissario di JP. $• Le accuse del P.M. a La Loggia per il delitto Tandoj ad Agrigento Il magistrato indica in due contadini i prosunti esecutori materiali del crìmine - I sospetti sullo psichiatra e sulla vedova del funzionario nacquero dall'atteggiamento della coppia subito dopo l'omicidio - Perizie calligrafiche sulle lettere anonime: sarebbero state spedite con lo scopo di sviare le indagini della polizia (Dal nostro corrispondente) Agrigento, 5 gennaio. Sei i principali punti di ac-, cusa sui quali il Procuratore della Repubblica di Agrigento, dott Francesco Ferrotti, si basa per chiedere il rinvio a giudizio del prof. Mario La Loggia e dei due contadini di Favara ritenuti rispettivamente mandante ed esecutori materiali dell'assassinio del Commissario di p. s. Cataldo Tandoj e dello studente Ninni Damanti di Porto Empedocle che fu ucciso da una pallottola di rimbalzo. L'accusa che il dott. Ferrotti rivolge al principale imputato — che l'anno scorso era stato scarcerato per mancanza di indizi — si può quindi riassumere cosi: 1) l'atteggiamento tenuto dal prof. La Loggia subito dopo il delitto; 2) l'atteggiamento della vedova del commissario, Leila Tandoj Motta, la sera dell'assassinio, in presenza del cadavere del marito e durante e dopo lo svolgimento dei funerali; 3) le perizie calligrafiche su un certo numero di lettere anonime pervenute agli investigatori durante le indagini e su altre lettere attribuite a Leila Tandoj Motta; ' 4) le modalità di esecuzione del delitto per cui l'assassino aveva operato in modo da risparmiare Leila Tandoj nonostante la donna si trovasse accanto al marito; 5) i rapporti di amicìzia esistenti fra il prof. Mario La Loggia ed i due contadini di Favara (Salvatore Calacione e Salvatore Pirrera) e le accuse rivolte contro questi ultimi da un misterioso informatore della polizia; 6) il riconoscimento di Salvatore Calacione, presunto sicario, individuato attraverso le descrizioni dei dati somatici fornite da quanti furono testimoni oculari del delitto di viale della Vittoria. Il dott. Francesco Ferrotti nella sua lunga Fequisitoria (sono circa 260 pagine dattiloscritte) esamina punto per punto tutti gli elementi raccolti dall'inchiesta di polizìa e quelli emersi, successivamente, durante l'istruttoria. E' doveroso dire che il prof. La Loggia, nel corso degli interrogatori, ha respinto tutte le accuse ed ha fornito una serie di spiegazioni e di delucidazioni ribadendo che la Giustizia finirà per accertare la sua completa innocenza . ed estraneità in questa misteriosa vicenda. Va aggiunto che le accuse formulate dal P: M. necessitano ancora del vaglio del giudice istruttore e che esse, pertanto, possono cadere completamente col proscioglimento, pieno e definitivo, dell'imputato. La tragica sera del 30 marzo 1960, il commissario di p.s. Cataldo Tandoj stava rincasando in compagnia della moglie Leila quando un uomo (più tardi si dirà che era di media statura, con giacca di velluto e pantaloni grigi, abbigliamento tipico del contadino* siciliano) sbucava da una rientranza oscura di un palazzo di viale della Vittoria, ove era rimasto fino ad allora nascosto, in attesa del passaggio della coppia. L'uomo pedinava per qualche istante la coppia; poi, quando essa stava per imboccare il portone d'ingresso del palazzo contrassegnato col numero Ili, si avvicinava e, puntata la pistola contro la schiena del commissario, esplodeva il primo colpo, sparato da una distanza di circa 20 centimetri. Il proiettile andava a segno; Cataldo Tandoj si contorceva e cadeva al suolo. L'assassino sparava un secondo colpo in direzione del corpo dell'uomo già ferito a morte, e da destra verso sinistra; poi un altro colpo ancora, che andava a vuoto ma, finendo contro il muro del palazzo, rimbalzava e recideva la carotide dello studente Ninni Damanti, che si trovava poco distante in compagnia del fratello Giuseppe e di altri quattro amici. L'assassino — a stare alla requisitoria scritta dal P.M. — si sarebbe preoccupato dYvitare, con ogni cura, di colpire la donna. Per questo l'uccisore aveva sparato da distanza ravvicinata e in direzione (da destra a sinistra) opposta al lato ove si trovava Leila Tandoj al braccio del marito. Le testimonianze dei presenti (Leila Tandoj Motta, Giuseppe Damanti fratello dello studente ucciso dalla pallottola rimbalzata e gli amici di questo Salvatore Gelardì, Biagio Milano ed Angelo Buscaglia) erano concordi sull'abbigliamento, l'andatura e la corporatura dell'assassino riuscito, a darsi alla fuga facendo perdere le sue tracce. Queste informazioni sarebbero risultate .preziose quando un'informazione segreta forni alla polizia i nomi dei presunti assassini dei commissario. Subito dopo il delitto Leila Tandoj — afferma il P.M. nella requisitoria — assunse un atteggiamento che avrebbe dato adito a sospetti. Pochi minuti dopo si sarebbe rifiutata di vedere il cadavere del marito, chiudendosi in una stanzetta dell'ospedale di Agrigento con alcune amiche ed amici e fumando nervosamente. Durante i funerali, la vedova avrebbe destato la generale meraviglia con un suo presunto strano contegno. La stessa sera del crìmine annotava sul suo diario: «Sono vedova». Cinque giorni dopo scriveva: <Ho fatto i capelli». A questo punto avrebbe scrit¬ o , a o , e to lettere d'amore al prof. Mario La Loggia. Così, almeno, dice il P.M. annotando che in quei giorni la signora Tandoj, recatasi ad imbucare una lettera al medito agrigentino, si vide il braccio bloccato dalla stretta dì un poliziotto che le sfilava di mano la missiva. Le cose da quel momento cominciarono a precipitare e tempo dopo si giungeva all'arresto dello psichiatra agrigentino. Anche il prof. La Loggia — secondo la requisitoria del P. M. — avrebbe tenuto un contegno « molto strano ». Tre ore dopo il delitto, circa la mezzanotte del 30 marzo 1960, il professore si recava in Questura per tentare di impedire l'autopsia del cadavere del Tandoj. Egli pregava il Questore di intercedere presso il Procuratore della Repubblica perché, < per un senso di umanità», fosse evitata la perizia necroscopica. Il P. M. afferma che egli disse di essere stato incaricato per quella richiesta dal dott. Motta, suocero del commissario assassinato. Trattandosi di un desiderio più che comprensibile — scrive il P. M. nella requisitoria — la circostanza passò inosservata, ma di 11 a poco si scopri che il La Loggia, nell'attribuire al dott. Motta quel desiderio, non avrebbe detto la verità. Sia il dott. Motta, sia la moglie che la figlia Leila escludevano non soltanto di aver conferito al La Loggia l'incarico, ma persino di avere manifestato a qualcuno il desiderio che l'autopsia non avesse luogo. Il dott. Motta, dando del « pazzo » e del « falso » al La Loggia, precisava che egli, quale ex-funzionàrio della polizia, aveva intuito subito la necessità dell'autopsia e che questa necessità aveva manifestato, peraltro casualmente, con altri nell'imminenza della necroscopia. L'affermazione del comm. Motta avrebbe poi trovato conferma nelle testimonianze delfe signore Clelia Aiazzi e Carmen Capraro Di Giovanna. Esse riferivano che, accompagnando al cimitero la famiglia in lutto e discutendo sull'opportunità o meno dell'autopsia, era intervenuto il dott. Motta per dire che « per ragioni di giustizia l'autopsia era indispensabile e che era giusto farla ». Alla contestazione di queste risultanze, - il La. Loggia, ' non potendo negare la richiesta fatta al Questore, rispondeva che probabilmente 11 dott. Motta aveva dimenticato di avergli affidato quell'incarico. Così, mentre ferveva l'inchiesta da parte della polizia e del carabinieri, numerose lettere anonime venivano inviate ad alcuni giornali, al Procuratore della Repubblica e alla Questura. Scopo delle lettere in questione — per il P. M. — era quello di sviare le indagini. Diverse missive venivano attribuite, da alcuni periti peraltro non sempre concordi, a Leila Motta e al prof. Mario La Loggia. La presunta relazione fra lo psichiatra agrigentino e i due contadini ritenuti esecutori materiali del delitto, veniva esaminata dagli investigatori. Calacione e Pirrera erano galoppini elettorali della famiglia La Loggia e più volte si erano rivolti al prof. Mario per avere dei < favori ». Pirrera in particolare, che risulta senza un'occupazione, aveva ottenuto un mutuo di parecchi milioni da una banca per espresso interessamento dei La Loggia. Fu un informatore, per quanto si sa, a fornire il nome dei due contadini di Favara. Gli investigatori presero per buone le informazioni e « fermarono », prima, ed arrestarono, dopo, sia il Calacione che il Pirrera. I due, interrogati, risultarono sprovvisti di alibi. Ad essi venne mossa l'accusa di aver compiuto il delitto «■■llltlllllllllllllllllltllllllltllllllllllllllllllllllll per ordine del prof. La Loggia. Tuttavia, dopo l'arresto, che venne esteso anche a Leila Motta, il giudice istruttore non ritenne che gli elementi raccolti fossero sufficienti ad un rinvìo a giudizio del medico, della vedova e del due contadini dinanzi alla Corte di Assise. Egli dispose la scarcerazione degli imputati che ancora oggi sono a piede libero. H P. M., dal canto suo, ha rinnovato — in questa requisitoria scritta — le accuse già in precedenza formulate. Spetta ora pertanto al giudice istruttore l'ultima parola che — secondo il prof. La Loggia — sarà quella di proscioglimento completo sia per lui che per i suoi amici. e. Ct All'Ucciardone di Palermo Mlddt

Luoghi citati: Agrigento, Favara, La Loggia, Porto Empedocle