Non la guerra, ma le malattie e la fame sono la più grave tragedia del Congo di Giovanni Giovannini

Non la guerra, ma le malattie e la fame sono la più grave tragedia del Congo DISPERATA URGENZA DI SOCCORSI AL PAESE IN SFACELO Non la guerra, ma le malattie e la fame sono la più grave tragedia del Congo Il conflitto del Katanga ha provocato perdite dolorose : 16 europei, 20 soldati dell'Orili, alcune centinaia di indigeni - Ma il dilagare delle infezioni, la mancanza di cibo e di medicinali mietono ogni giorno un numero ben maggiore di vittime - Quattro bambini su cinque sono denutriti; quasi l'intera popolazione soffre di parassiti intestinali, 1*80 per cento di malaria - Lebbra, tisi, sifilide si estendono in modo pauroso - La lotta di trecento medici (parecchi italiani) e di qualche decina di suore è eroica ma inadeguata • Gli abitanti sono 14 milioni, le distanze immense, anche nei lazzaretti e negli asili dell'interno il personale si ciba di radici e vermi (Dal nostro inviato speciale) Léopoldvllle, dicembre. In questo desolato Natale congolese, non è corso sangue, nemmeno ad Elisabethville. In due settimane di scontri hanno perso la vita venti soldati delle Nazioni Unite, centinaia di africani (sia katanghesi di Giombe sia baluba abbattuti nel loro grande campo di concentramento), sedici europei, fra i quali gli italiani Ermanno Prina e don Michelino Gagna. Di-altre famiglie italia¬ MHIIMIHItlMIMIIlllllMIIIIIIMlItllllIIIMIIIIIIIIIIII ne mancano ancora notizie, ma non dovrebbero più esserci dolorose sorprese: così è riuscito a comunicare da Elisabethville il nostro console Natali, per il quale il capo dell'Onu nel Congo, hinner, ha avuto stamane parlando con noi espressioni di ammirazione. Nello stesso elogio, per lo spirito di sacrifizio e il coraggio, altri italiani devono essere accomunati: medici e sanitari della Croce Rossa alle prese, nel fango del loro IIIIIIIIIMIIIIIIIIHI^ IH 1 111 111111 i I II 111 II ospedaletto, con un lavoro spossante e orrendo, e gli equipaggi dei nostri < C119 », coraggiosi e pazienti nella loro spola continua nel cielo ora rovente ora fitto di nubi sulla eternamente monotona, impenetrabile distesa della foresta equatoriale. Nella notte di Natale, a Ndjli aeroporto di Léopoldville, gli aviatori italiani si sono riuniti attorno ad un «<71i9», nella cui grande coda spalancata era stato allestito un altare: a celebrare la Messa I 1 II Il I II II III III I UH II II MI ■ 11 II 11 II I II II I II I II IB il loro cappellano don Masetto. E dalla grande piana si è levata ancora la preghiera commossa per i caduti di Kindu, per tutti i caduti in questa terra amara. Anche se il futuro è sempre incerto (Giombe terrà questa volta fede o no alla parola datat), grazie a qualche uomo di buona volontà la pace per il momento è tornata: nessuno dovrebbe uccidere o essere ucciso, almeno nei giorni di Natale. Ma nemmeno in questi giorni nessuno riuscirà a fermare la morte che quotidianamente fa strage fra quattordici milioni di congolesi, causata non da armi antiche o moderne ,di guerra, ma dal coacervo di malattie che sempre più pauroso dilaga nello sterminato paese. Le cifre che mi elenca uno dei dirigenti dell'Organizzazione mondiale della sanità in Congo, l'italiano dottor Franco Previtera, sono terrificanti. Un congolese su cinquanta ha la lebbra, i colpiti dall'orrendo flagello sono quasi trecentomila, e sono aumentati di 35 mila nel solo giro di un anno. Centocinquantamila sono affetti da tubercolosi, un male al quale gli africani non sanno offrire la resistenza degli europei e soccombono più facilmente anche quando possono avere delle cure. Quanti siano gli affetti da sifilide nessuno sa dire: i nuovi casi, nel solo I960, furono ZOO mila, quasi il doppio dell'anno precedente. Anche sommando insieme soltanto lebbra, tubercolosi e sifilide, si arriva ad almeno un congolese contagiato su dieci. Ma il bilancio generale è più spaventoso ancora. Dai giorni dell'anarchia seguita all'indipendenza, la malaria, un tempo contenuta vittoriosamente, è dilagata in misura senza precedenti: già alla fine dell'anno scorso si era avuto quasi un milione di nuovi casi e oggi si calcola che siano malati quattro congolesi su cinque. Da parassiti intestinali è praticamente afflitta l'intera popolazione: per la elmintiasi si parla del 98 per cento, per quella forma particolarmente grave ed emorragica che è la anchilostomiasi si conta mezzo milione di nuotH infetti nel giro di un anno. Malattie del sonno e mentali, vaiolo, ameba, tetano, fanno segnare ai diagrammi statistici sanitari punte mai raggiunte. L'anemia falciforme ha colpito un congolese su tre e costituisce il sette per cento delle cause di morte. Quattro bambini su cinque presentano segni di denutrizione o sono affetti da avitaminosi. La mortalità infantile continua, a salire, oggi è percentualmente superiore di dodici volte a quella italiana. La vita media di un congolese continua a diminuire, si aggira, ormai, sui SS anni, meno della metà di quella nostra. Il dott. Previtera smette di colpo di elencare cifre, prende un cartoccio di carta dove conserva dei vermi secchi simiZi ai nostri bruchi. <In primavera — racconta — durante un viaggio di cinquantamila chilometri e di tre mesi in jeep attraverso il Rivango e il Kwilu, arrivai in certi posti dove nessun bianco era più stato dal giorno dell'indipendenza. In un villaggio chiamato Tumikia mi trovai improvvisamente davanti cinque suore italiane che in serena letizia, come se nulla fosse successo, mandavano avanti come prima una scuola con settecento alunni: da mesi e mesi non avevano niente da mangiare, si nutrivano con questi vermi che i loro ragazzi andavano a scovare tra le radici degli alberi ». Previtera aspetta che io abbia guardato ben bene con ribrezzo i vermi, poi riprende: < Non era un caso isolato. A poca distanza di lì, a Masongo, altre cinque suo- re italiane facevano funzionare da sole, e bene, un lebbrosario con duemila ricoverati. Sia loro che le altre avevano almeno l'assistenza spirituale di un vecchio gesuita da 51 anni nel Congo, padre Greggio. E ad ottanta chilometri, chilometri lunghi da percorrere nella boscaglia, c'era perfino un medico, italiano anche lui, il dott. Pedrettì, che insieme alla moglie, un'infermiera tedesca, non si era mai mosso e curava la gente nel raggio di quattrocento chilometri ». ' Il mio interlocutore non parla e non cita episodi a caso: « Già — dice quasi tra sé — di questa catastrofe che si sta abbattendo sul Congo, la prima causa sono i vermi che le ho mostrato, voglio dire la denutrizione e la fame: l'altra è che di medici come Pedretti ce ne sono stati pochi ». Nel Congo ancora belga operavano circa ottocento medici, e non erano molti: oggi saranno qualche decina quelli che, dopo essere fuggiti, sono poi ritornati nelle grandi città, ma nei momenti di crisi più acuta ci sarà stato ufi medico ogni milione di congolesi. A curare ed operare erano rimasti solo centosessanta tassìstenti» africani, a metà tra medico e infermiere. (tSempre nel Kwilu, ricorda Previtera, arrivai all'improvviso in un ospedaletto proprio mentre un congolese stava eseguendo serenamente una tiroidectomia, e furono momenti spaventosi forse più per me, costretto ad assistere, che per il paziente, miracolosamente sopravvissuto >). Furono i paesi confinanti, spaventati per i contagi in seguito al crollo sanitario della nuova repubblica, ad invocare un qualche intervento dell'Onu. Per quanto non attrezzata per un simile compito, l'Organizzazione mondiale della sanità arruolò e inviò rapidamente duecento medici (una quarantina italiani;, c7ie oggi sono all'opera nelle condizioni che ormai anche nel resto del mondo tutti possono immaginare. Con altri settanta in arrivo e anche contando i medici civili, si arriverà sì e no a trecento, e saranno sempre troppo pochi per quattordici milioni di persone. L'Onu e l'Organizzazione mondiale sanitaria fanno intanto un grande sforzo anche per formare qualche medico africano, hanno inviato i centosessanta < assistenti» (partiti tutti con la moglie e con la numerosa prole, spesso nove, dieci, undici figli) in università europee, o qui nella « Lovanio » di Léopoldville. In questa locale, l'unica congolese, una quarantina di allievi tra c assistenti » e giovani provenienti dalle scuole medie studiano medicina (anche sotto la guida di quattro medici italiani, Accigliaro, Gatti, Moretti, Previtera). I primi due si sono laureati quest'anno e non più di tre o quattro termineranno i loro studi in ciascuno dei prossimi anni. Solo nel 1970 dovrebbero uscire 90 medici locali, ma in quello stesso anno il Congo avrà bisogno di almeno mille medici stranieri. E' una prospettiva paurosa, alla quale possono e devono far fronte solo uomini e mezzi dell'Onu attraverso l'Organizzazione mondiale della sanità. Un giorno, anche se purtroppo non sembra vicino, le sanguinose beghe tra i capi e gli scontri d'interessi fra coloro che di lontano li appoggiano, potranno attenuarsi e i < caschi blu » tornare alle loro case lontane. Ma non i camici bianchi e tutti gli altri tecnici. Poiché il dramma del Congo non è soltanto politico, è totale: mai forse nella storia un popolo intero è malato, anche fisicamente. Ad esso, a quattordici milioni di esseri umani, il mondo non può rifiutare il suo aiuto: qui, c'è chi ha placato la fame solo con i vermi, anche in questo Natale dell'anno di grazia 196.1. Giovanni Giovannini

Luoghi citati: Congo, Elisabethville