Troppi braccianti e povertà di iniziative rallentano il progresso economico della Sicilia di Francesco Rosso

Troppi braccianti e povertà di iniziative rallentano il progresso economico della Sicilia FRA UOMO E MACCHINA, NELL'ISOLA C'È ANCORA ANTAGONISMO Troppi braccianti e povertà di iniziative rallentano il progresso economico della Sicilia Attorno all'antica Siracusa.stanno sorgendo grandi industrie moderne, che portano la rivoluzione negli addormentati villaggi - A Priolo i «monopoli del Nord» hanno investito 191 miliardi in nuove fabbriche, pagano 8 miliardi di salari all'anno; a Campofranco, fra le terre lavorate con l'aratro a chiodo, sorge uno stabilimento che produce 140.000 tonnellate di concimi chimici all'anno • Il porto di Augusta, fino a ieri insignificante, è ormai il terzo d'Italia - Ma queste imprese hanno bisogno di operai specializzati, non bastano per dar lavoro ai troppi manovali disoccupati - Sarebbero necessarie delle piccole imprese locali, dei criteri più razionali nell'amministrazione, e la fine dell'antica diffidenza per i «settentrionali» (Dal nostro inviato speciale) Priolo, novembre. Ai margini della strada, alcuni uomini lavoravano di martello. Sotto i colpi esatti, le pietre si frantumavano con crepitio secco, inerte, eco di un lavoro inutile. Quegli uomini incontrati sulle strade siciliane credo siano gli ultimi spaccapietre d'Eu¬ lIIIIIIilIlllIIIIIIIIII1EIIIlllII11IIIIIIIIIII1IllI|1lfllllI ropa e testimonianza di una situazione drammatica che minaccia di fossilizzarsi. La Sicilia si dibatte in un cerchio economico che sembra senza uscite, fame di lavoro e industrializzazione moderna sono gli opposti cardini attorno ai quali ruota l'inquieta esistenza dell'isola. Per frantumare un metro IIIMMIIIllllItl11IIIIIIII1IIIllllllillIIIIIIIf1IIIIllIl cubo di pietre, l'azienda stradale paga 400 lire; lo^stesso volume di breccia acquistata in un frantoio meccanico costerebbe assai meno, ma gli spaccapietre rimarrebbero disoccupati. L'antagonismo fra l'uomo e la macchina assume aspetti tragici in Sicilia. Osservavo quegli uomini di mani dure vibrare il martello sulla pietra e non potevo impedirmi di alzare gli occhi sul ciclopico stabilimento che sorgeva cento metri più in là, costruito dalla Montecatini a Campofranco per la produzione di fertilizzanti potassici. Nella fabbrica, fra macchine modernissime, pochi operai producono HO mila tonnellate l'anno di concimi chimici; sulla strada, uno spaccapietre impiega tre ore a frantumare un metro cubo di breccia. Questa situazione durerà all'infinito perché la Sicilia offre milioni di manovali, mentre l'industria richiede operai specializzati. Durerà, soprattutto, se la classe dirigente siciliana, per esigenze elettoralistiche e demagogiche, continuerà ad alimentare l'ostilità contro i cosiddetti monopoli del Nord. E' vezzo corrente dichiarare in comizi e riunioni che l'industrializzazione dell'isola favorisce solo i grandi complessi dell'Italia settentrionale; ma sono affermazioni non sincere, perché chiunque può constatare che dove la industria si è sviluppata, il benessere delle popolazioni ha fatto balzi prodigiosi. Fino al 1957, Campofranco era un villaggio da capre, una agricoltura primordiale era la sua economia essenziale, la carne di vitello era sconosciuta. Oggi vi sono a Campofranco tre macellerie fornite di moderni frigoriferi, negozi di abbigliamento, bar con l'immancabile jukebox, e molti operai vanno allo stabilimento in motoretta. Il migliorato tenore di vita è dovuto ai 15 milioni di salari pagati ogni mese dalla Montecatini, ma il beneficio è limitato ad un'esigua schiera di fortunati, la maggioranza continua a spaccar pietre e ad arare i campi con l'aratro a chiodo. Responsabili della situazione sono coloro che amministrano la Sicilia i quali, convinti iiiiiiiitiiiiiiiiiiiiii 1 iiiiiiiiiiiiiiiiiiiid a e a a a o o a e e e , a) e e , i o l di risolvere tutti i problemi dell'isola con la scoperta del petrolio e dei minerali potassici, non hanno fatto nulla (anzi, hanno creato barriere di diffidenza) perché intorno ai grandi complessi sorgessero industrie piccole c medie, che sono l'ossatura di un paese moderno. I/esemplo più clamoroso credo sia quello di Priolo, piccolo borgo di pescatori alle porte di Siracusa fino al 1955, ed ora trasformatosi in città pervasa dal furore edilizio. Nel 1955 i terreni gerbidi costavano 150 lire il metro quadrato; esaurite le aree incolte, i terreni fabbricabili costano oggi SO mila lire il metro quadrato. L'esplosione economica di Priolo e della vicina Augusta è dovuta alla presenza di una grande raffineria di petrolio, allo stabilimento Sincat per i fertilizzanti, alla Celene per le materie plastiche, alle Cementerie di Megara e della Sacs, all'industria del bromo della Espesi, <xlla centrale termoelettrica della Tifeo. Queste società hanno investito complessivamente 191 miliardi, dei quali 110 sono stati spesi dalla Sincat e dalla Celene del gruppo Edison; il volume di salari e stipendi che le varie società pagano ogni anno ai loro dipendenti supera gli otto miliardi. In meno di cinque anni, il porto di Augusta, prima inesistente per il movimento commerciale, è passato al terzo posto dopo quelli di Genova e Marghera. Il benessere non si limita a Priolo; ne beneficia l'intera provincia di Siracusa, dalla quale provengono tutti gli operai della zona industriate. Il reddito medio siracusano che nel 1955 era di 155 mila lire l'anno è salito a SOS mila lire nel 1960, il consumo della carne è salito da SS mila quintali l'anno a ifi mila, le motociclette da mille a 6500. Potrei continuare l'elenco, ma non servirebbe a nulla, i miei amici siciliani continuerebbero a sostenere che io difendo i gruppi monopolistici del Nord. Però gli esempi sono là, sulle mitiche sponde del mar Jonio, e tutti li possono vedere. A Gela, Campofranco, Porto Empedocle, Priolo, Augusta si sono formate isole industriali vitali e tra le molte imprese vi è una sola società siciliana, il cementificio e Iq. cartiera del barone Pupillo; gli altri complessi sono stati costruiti da gruppi economici del Settentrione i quali, anziché agevolati, sono isolati in mezzo a infinite difficoltà. Ho dinanzi agli occhi la copia di una lettera che potrebbe essere umoristica se non fosse indicatrice di una conturbante mentalità, una lettera inviata dal municipio di Siracusa alla società Sincat per chiedere, in base a privilegi concessi aita città su alcuni feudi da re Federico III nel 1S98, e confermati da re Martino nel 139S, una gratifica di 150 milioni per usi civici sui due miliardi spesi dalla società nell'acquisto dei terreni per la costruzione degli stabilimenti. In ogni altra città italiana, i comuni offrono quasi gratuitamente il terreno alle industrie, pur di averle. Non deve stupire, quindi, se i grandi complessi rimangono isolati e attorno a loro non si forma quella rete di piccole e medie industrie, che potrebbero assorbire altra manodopera. <Noi siamo la chioccia — mi diceva un dirigente della Sincat — e vorremmo che attorno a noi crescesse una folta nidiata di pulcini ». Ma la covata tarda a venire al mondo e le industrie siciliane devono ricorrere forzatamente al Settentrione per i rifornimenti. Se ci fosse a Priolo un sacchificio farebbe affari, perché la sola Sincat IIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIllllllIllIIIIIIIIIIlflIllMIlM consuma cinque milioni di sacchi l'anno per un valore di oltre un miliardo; una fabbrica di stampaggio potrebbe lavorare le materie plastiche della Celene; una di fusti metallici potrebbe jornire la raffineria per il bitume; officine per il rifasamento dei motori avrebbero lavoro assicurato. Di tante necessità fra Priolo e Augusta c'è una sola officina meccanica impiantata da un signore di Albisola. I siciliani non si sono ancora resi conto che potrebbero utilmente impiegare i loro capitali nelle industrie marginali, preferiscono depositarli nelle banche le quali, ovviamente, li investono secondò la richiesta, anche nelle industrie settentrionali, se è necessario. Ma oltre a non interessarsi direttamente allo sviluppo industriale dell'isola, si direbbe che i siciliani pensino soltanto a paralizzare i complessi già in attività con iniziative più demagogiche che economiche. Così, specie dopo la scoperta del metano a Galliano, in provincia di Enna, hanno ventilato l'intenzione di regionalizzare il sottosuolo, cioè il petrolio, il gas ed i minerali potassici. La legge ha scarse probabilità di passare, ma solo averla pensata ha prodotto effetti disastrosi. Chi ha già investito capitali cospicui non è certo invogliato ad ampliare i propri impianti e la inquietudine che serpeggia fra i grossi industriali si riflette sui piccoli i quali, non sicuri di far fruttare i capitali con industrie complementari, si astengono da ogni iniziativa. L'ansia di creare il maggior numero di posti di occupazione per migliaia di uomini che hanno fame di lavoro, è umanamente comprensibile; ma è giusto esigere che queste condizioni siano create con criteri e norme che non siano in contrasto con la situazione del mercato, cioè che si creino industrie che possano sostenere la concorrenza internazionale. Non è certo infilando seimila manovali in uno stabilimento automatizzato, in cui sono sufficienti mille operai specializzati, che si risolve il problema della disoccupazione siciliana. L'esempio dello zolfo dovrebbe insegnare a evitare gli errori di industrie forse umanitarie, ma non economiche. Lo zolfo' siciliano costa 1,5,50 lire al chilo, contro le 15 lire dello zolfo francese; gli alti costi, ai afferma, sono dovuti ai salari dei minatori ed agli antiquati metodi di sfruttamento, ma gli ottomila solfatara non possono essere licenziati. E' il vecchio antagonismo fra l'uomo e la macchina, tragico in Sicilia. Se invece di dissanguare l'isola per mantenere quei prezzi dello zolfo, i dirigenti dell'economia siciliana avessero creato altre fonti di lavoro (un programma di opere stradali di cui la Sicilia ha bisogno urgente; lavori di rimboschimento per arginare le alluvioni che ognt anno portano in mare 50 milioni di metri cubi di buona terra) avrebbero assicurato dieci anni di occupazione non solo a tutti i solfatari, ma a molte altre migliaia di uomini, e la Sicilia avrebbe arricchito il proprio patrimonio con opere durevoli. Invece, siamo alle soglie del Mercato Comune, con una differenza di prezzo dello zolfo che condanna quello siciliano a restare dove si trova, sotto-terra, e di tutti i miliardi spesi negli ultimi dieci anni non rimane nulla. Purtroppo è opinione diffusa che si voglia . ripetere la manovra con la industrie appena nate, la. fame di lavoro rende ciechi. Alcuni dicono che i siciliani, scoperta la ricchezza del loro sottosuolo, non sanno se preferire l'uovo oggi o la} gallina domani; altri, con malizia, affermano che essi vogliono la gallina subito. Hanno troppi bisogni urgenti, non possono attendere che produca uova e altre galline. Francesco Rosso