Fantasia e realtà in Zarattini

Fantasia e realtà in Zarattini Fantasia e realtà in Zarattini E' ormai consuetudine, spesso di comodo, dire che questo o quel film è di questo o quel regista. Se è vero che del film il regista è, in diversi casi, l'autore — non inteso nella sua entità fisica quanto in quella, spirituale, nel senso che egli assorbe, coordinandolo, il lavoro dei diversi collaboratori — non meno pacifico è il fatto che, tra questi collaboratori, in determinate occasioni, un posto particolare assume la personalità del soggettista-sceneggiatore. La quale personalità o viene a equilibrarsi con quella del regista, o addirittura risulta predominante. Di quest'ultimo caso esemplare ci sembra L'aimée derìdere à Marienbad, che diremmo opera più di Robbe-Grillct che di Rcsnais; del primo il contributo di Thea von Harbou, o di Jacques Prcvert, o di Cesare Zavattini nei film del primo Lang, del Carne tra le due guerre, e di Vittorio De Sica. Zavattini è stato ed è, del neorealismo, il più fervido teorizzatore, e difensore. Note sono le sue idee, le sue tesi, la sua poetica. Per lui, il più sostanziale merito del nuovo cinema italiano è quello di proporsi solo argomenti vicini nel tempo e nello spazio, per svolgere i quali è indispensabile inserirsi anche fisicamente nel tessuto della nazione, aumentando, secondo una progressione geometrica, lo scambio dei rapporti di conoscenza tra gli italiani. Pur essendo soggettista che ha scritto, come afferma, «tanche troppi soggetti », Zavattini vuole che i registi vadano fuori nel mondo con una macchina da presa, e senza un copione in tasca. Di preconcetto non ci deve essere che la qualità dei loro interessi: la forza, la grandezza dei loro occhi. «Con che cosa tornerebbero alla sera? Uno si è fermato all'angolo della strada; un altro è finito in un campo davanti, non so, a ragazzi che giocano; un terzo ha consumato tutta la pellicola di cui disponeva di fronte a un contadino che zappa; un quarto ha seguito casualmente un uomo e ci fa vedere come muove i suoi passi, com'è nelle sue più semplici abitudini ». Una dichiarazione paradossale chiarisce quanto Zavattini pensa e vorrebbe. « Noi dovremmo fare i " film Luce ", le settimane Incelili di noi stessi e degli altri, così come ci laviamo i denti, tutti i giorni ». L'uomo che parla, che lavora; una lite, una faccia di uno che piange o che non piange, la sua quotidianità; quelle parole e quegli atti che non saranno mai giudicati degni di occupare tre righe neanche sul giornale, e che sono invece i grandi fatti della vita dell'uomo, che in ogni suo momento e in ogni suo spazio ci domanda incessantemente che cosa intendiamo fare per lui: infinita è la gamma di incontri del genere, la possibilità di questi « pedinamenti », occhi al « buco della serratura ». ( « Un braccio lo darei e gli occhi no », annotava Zavattini in ipocrita 1943; «se improvvisamente di notte mi viene la paura di essere diventato cicco, accendo precipitosamente la luce »). Zavattini è insomma convinto che quando si avrà la forza di compiere questi atti sociali — « perché sono veri e propri atti sociali » — da questo cinema della « realtà », di documento; nascerà la poesia. Lo sforzo non sarà tanto, allora, di raccontare una cosa, ma di essere la cosa Per Zavattini gli stessi capolavori del neorealismo — Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema — contengono sì, ognuno, alcune cose di una significatività assoluta che rispecchiano il concetto del tutto raccontabile; ma sempre in un certo senso trasla te, perché in essi c'è ancora un racconto inventato, non il vero « spirito documentaristico ». Di qui il suo film manifesto, polemico, Amore in città. Film inchiesta, senza trama o intreccio cui si riallacciano Le italiane e l'amore e / misteri di Roma, che attualmente sta girando con due gruppi di giovani registi, sùbito dopo // giudizio universale, che a sua yolta rimanda a Miracolo a Milano. Questi e quelli rappresentano gli estremi della sua poetica. Pur così diversi gli uni dagli altri, essi rientrano tuttavia nell'ampio contesto dell'esperienza neorealistica. Miracelo a Milano, Il giudizio (ai quali possiamo aggiungere La guerra, realizzato l'anno scorso in Jugoslavia), con la loro struttura da favola, con il loro linguaggio esopiano, dimostrano anzitutto come siano errate le ragioni critiche di chi denuncia il campo angusto del movimento ncorealistico o realistico, in quanto in esso vedono escluso il gioco della fantasia, la possibilità di dare del mondo e dell'uomo una rappresentazione fantastica. « Un affamato, un umiliato, occorre farlo vedere con il suo vero nome e cognome e non bisogna raccontare una favola in cui ci sia un affamato, perché è un'altra cosa, meno efficace, meno morale », afferma Zavattini in occasione di Amo¬ re in città. E Caterina Rigoglioso, la serva che aveva abbandonato per miseria suo figlio in un giardino di Roma, è, in quel film, la stessa Rigoglioso, e così pure il bimbo; medesimi i luoghi della tragedia. Anche altri personaggi sono presi dalla vita, scegliendo proprio le persone che avevano avuto la parlici fatti che l'opera descrive. Esse, non il copione, narrano i momenti più drammatici della loro esistenza. E l'invito a raccontare la vita non sul piano dell'intreccio ma della vita quotidiana, tende ora nuovamente a estrinsecarsi, in Le italiane e l'amore e in / misteri di Roma, sotto forma di inchiesta, di « film lampo », di « film Luce » appunto. Una contraddizione, piuttosto profonda, esisterebbe dunque tra i film-inchiesta e i film-tV vola di Zavattini. Quest'ultirnf tuttavia non smentiscono, ne: loro dati di partenza, di impostazione, lo spirito ncorealistico. La letteratura ha più d'una volta dimostrato come siano realistiche le novelle fantastiche di un Balzac o di un Hoffmaun. Naturalmente c'è fantasia e fantasia, rappresentazione fantastica e rappresentazione fantastica. Il problema consiste nel vedere quale fantasia riesca o meno a rispecchiare artisticamente la realtà. La battaglia contro i mulini a vento, inventata da Cervantes, non è verificabile nella vita quotidiana; il che non ha impedito d'essere annoverata tra le situazioni più tipiche e più riuscite che sinora siano state immaginate. Si riprescnta, a proposito di Zavattini, l'interrogativo posto in letteratura da critici illustri: se la profonda conoscenza della vita si arresti davvero all'osservazione della realtà quotidiana, o non consista piuttosto — come appunto nel caso di Cervantes, o di alcune fiabe di"] Chaplin — nella capacità di cogliere gli clementi essenziali, e d'inventare, in base a essi, caratteri e situazioni assolutamen te impossibili nella vita quotidiana, e che tuttavia sono in grado di rivelare quelle tenden ze, quelle forze operanti, la cui azione è malamente visibile nel¬ idsiiifiiiTiii<iii)i(iiii< la penombra della vita di tutti i giorni. E' un interrogativo <;hc permane all'interno della poetica zavattiniana. E analogo interrogativo ripropone chi, come il Rouch (e il Morin) di Cronaca di un'estate, a quella poetica si richiama sia pure con alcune varianti. Queste nostre considerazioni, questi dubbi — ammesso che siano in qualche modo fondati — non diminuiscono il considerevole apporto che il coautore di Ladri di biciclette e Umberto D. ha dato e continua a offrire al nostro cinema e a quello straniero, la sua opera teòrica e pratica feconda, spesso fervida di fermenti, di grandi illuminazioni. Guido Aristarco

Luoghi citati: Jugoslavia, Milano, Roma