Una lettera d'amore di Milena Milani

Una lettera d'amore Una lettera d'amore Arrivare a casa in ritardo, quando di sicuro il telefono ha già squillato a lungo, con insistenza, nelle stanze deserte, e sapere che lui non chiamerà più (forse pensa che io non abbia risposto apposta, per troncare tutto, o anche per farlo soffrire); ma sedersi sul letto, accanto all'apparecchio, contemplandolo come si guarda un oggetto astrale, lontanissimo, irraggiungibile (oh la sua voce attraverso lo spazio, come mi giunge tuttavia calda di toni, corporea quasi...); tutto questo mi successe un venerdì, in un pomeriggio fosco in cui restai forse un'ora immobile, senza forza, letteralmente svuotata. Non so se lo amo, non so se mi piace, non conosco ancora le sue reazioni, come non so le mie: eppure esiste qualcosa, mi dico, che ci unisce anche attraverso la distanza. Abitiamo due città separate da chilometri e chilometri di pianura, da colline e montagne; e ci sono strade lunghissime, piene di veicoli che vanno, di gente e rumori; non abbiamo che i) telefono per ritrovarci. A volte, con quel solo mezzo, abbiamo ricreato un'intimità, ci siamo sentiti accanto, senza complicazioni, né paure, soprattutto senza ipocrisie. Con quale fantasia io gli dissi frasi e parole di cui forse avrei arrossito se avessi dovuto pronunciarle davanti ai suoi occhi, in maniera visibile: invece così mi sentivo leggera come una nuvola, persino in fiace con me stessa. Dopo la telefonata, avevo sul viso una luce strana e a guardarmi nello specchio non mi riconoscevo. Ma, venerdì! Venerdì non arrivai in tempo, corsi per la strada, per le scale, per il corridoio, dicevo: aspettami, ma c'era già nella casa quel silenzio terribile, l'orologio segnava quei cinque minuti in più che significavano il vuoto, la mancanza delle-parole, una desolazione di cui mi resi conto lentamente, dopo che quei cinque minuti divennero dieci, quindici, venti, uno stillicidio di morte. Allora^ iggrappata con l'anima ai ricordi, mi venne in mente quella sera di nebbia, a Venezia, quando le campane suonavano, erano campane di navi, di imbarcazioni sommerse, e gridavano, sospiravano, si lamentavano lugubrmente, spaventosamente. lo e lui eravamo soli e sperduti in quel deserto, e ogni tanto altre ombre vaghissime, circondate di un alone traslucido ci venivano incontro e subito svanivano, inghiottite, annientate; io e lui andavamo senza sapere dove, con una paura irragionevole, quasi un terrore (o per lo meno io sola ne ero posseduta e cercavo di avere forza dalla sua presenza reale, dal contatto della sua mano stretta alla mia, ma in verità non potevo calmarmi, e trasmettevo anche a lui quelle sensazioni di angoscia). Era bella Venezia e inconsueta nella sua nebbia di primavera — un avvenimento, dicevano, una straordinaria occasione per vedere la città nella sua atmosfera di sogno —; ma noi due avevamo soltanto una sorda inquietudine, un doloroso presentimento. L'indomani ci saremmo lasciati, e di nuovo avremmo avuto solo il telefono per stare vicini, una telefonata al giorno, in una ora stabilita, come un appuntamento, un incontro, sempre troppo breve, troppo passeggero. Oh amore, dicevo quel venerdì, mio caro amore. Non so se ci amo, ma lascia che io pensi di poterlo fare, lasciami anche credere di avere capacità di soffrire. Se soffro, se il cuore si torce nel petto, sono ancora viva, come un albero ho messo foglie, sento il tepore del sole, il vento, respiro aria, mi inebrio come una creatura, un essere umano, anche una pietra, un filo d'erba. Chi ha stabilito che la tua voce, solo la tua voce, possa rendermi debolissima, con le ossa fragili, il peso incorporeo; e che per la tua voce io diventi goccia d'acqua, fruscio di un'onda sulla spiaggia, o cielo, senza colore, quasi di latte, come in certe mattine quando pensando a te mi sveglio troppo presto? lo non credo ai miracoli, sono troppo terra terra perché i miracoli avvengano per me, la vita mi ha insegnato assai spesso a lasciar trascorrere i giorni attendendo qualcosa che non verrà mai, e sempre mi difendo da tutto, mi difendo anche da me stessa. Ho paura delle mie sensazioni, delle mie debolezze, dei possibili incantesimi, degli amori che arrivano improvvisi, e sono forse infatuazioni, spasimi perché mai si ha quello che si vorrebbe (io sono insoddisfatta di tutto); ho estrema pietà di quello che posso fare, dei mici gesti sempre troppo bruschi, maldestri, e mi dico a volte di smetterla, devo essere ragionevole, devo vivere come fossi pianifi¬ cata, placata, definitivamente arresa. Ma poi, ecco, arrivi tu e la tua voce al telefono è come un contatto elettrico, mi possiede in ogni fibra, mi ubriaca, mi travolge. Creatura, creatura mia, esclamo, aiutami a vincere questa indecorosa sensazione che si impadronisce di tutto il mio essere, questo esangue torpore, questo trasalimento e svenimento che a poco a poco penetrano in me, come se il sangue diventasse acqua e io giacessi senza più forza né reazioni, come prossima a morire. Forse, mi dico, la morte sarà davvero così dolce, così inconsistente. Morte e vita nello stesso istante, in quel momento lunghissimo, che vorrei non finisse mai. Ti scrivo una lettera, mi sono detta, una lettera che forse non ti ha spiegato niente, che è incompleta, astrusa, che è nata senza che io me ne rendessi conto, naturalmente, perché l'amore anch'esso, quando nasce, è come me in questo momento: pazzamente felice, terribilmente triste. Milena Milani

Luoghi citati: Venezia