Napoli senza maschera

Napoli senza mascheraNapoli senza maschera Nell'offensiva ormai universale contro l't.ttctica della « cartolina illustrata », cioè contro la banalità panoramici e l'ottimismo folcloristico, i migliori scrittori napoletani si sono posti in prima linea, a malgrado della particolare difficoltà dell'impresa. La loro città, il loro golfo, infatti, sono sempre stati il rifugio inviolabile del sentimento, della « luna d'argento », del « cucire innamorato », dei languori, degli ardori, insomma di una felicità d'obbligo che si concludeva nella famosa e vanitosa imposizione: «Vedi Napoli e poi muori ». Tanto più difficile, dunque, risulta l'accostarsi alla verità, sfatando la leggenda (così comoda per i benpensanti) di un popolo che non può soffrire della propria miseria perche si nutre ogni giorno di sole, di erotici sospiri e di allegria. Bisogna guardare con occhi non velati da troppo affetto filiale a quel che avviene dietro la splendida facciata di via Partcnope, o lungo le calde riviere di Portici o di Torre Annunziata; e questo impegno, da una quindicina di anni, gli scrittori napoletani 10 stanilo bravamente assolvendo. Alcuni libri recenti ne offrono la riprova: libri che, pur senza forzare la mano e trascinare il lettore verso conclusioni troppo disastrose, cercano di raffigurare 11 volto dolente della città anche sotto la maschera di Pulcinella; o meglio, ncìla fattispecie, di qualche « magliaro » dall'animo conteso tra la fatica di campare giorno per giorno e la sodisfazionc per qualche imbroglio ben riuscito: così come ce Io descrive Carlo Bernari in uno dei più vivaci capitoli della sua Bibbia 7iapoletmm (ed. Vallecchi), un volume di gran pregio anche editoriale, ottimamente illustrato con vecchie stampe a colori, di piacevole e sovente rivelatrice lettura. Un altro libro recente, anch'esso in veste lussuosa, è quello di Domenico Rea: // re e il lustrascarpe (ed. Pironti), con lustrazioni di Paolo Ricci. Rea è scrittore nativamente immaginoso e colorito, ma in questo volume egli ha voluto quasi castigare il suo « napoletanismo » esteriore per darci una lunga serie di brevi resoconti e di rapide figurazioni, tutti intonati a un certo verismo intinto di amarezza e di malizioso divertimento. Ne risulta per il lettore un'impressione come di schermaglia tra il vecchio e il nuovo, dove ora vince l'uno ora l'altro, col sottinteso che Napoli , deve affrontare la modernità senza tuttavia rinunciare ai caratteri più originali del passato. Un omaggio al passato, appunto, è un terzo libro, dovuto a Salvatore Gaetani: Apud Neapalim (ed. Montanino). Qui ritroviamo la Napoli degli aristocratici e dei begli ingegni, con i suoi aneddoti, le sue barzellette, le sue burle. Si è un po' abusato dcll'« arguzia partenopea », fino a farla diventare un luogo comune, ma Gaetani la ripropone con il naturale compiacimento di chi è nato e cresciuto in quel clima. Certe pagine su Croce sono, per di più, così devotamente rivissute che anche l'aneddoto tende a confluire nella biografìa. Di altri libri attuali si potrebbe parlare, come del fortunato Vita in villa di Clotilde Marghieri, dedicato alle bellezze e, insieme, alla vita difficile .della campagna vesuviana. Mi limiterò, per concludere, ad accennare a due gruppi di giovani che oggi a Napoli operano per togliere alla loro città l'alone oleografico di cui ancora soffre: ii gruppo di « Nord e*Sud », rivolto soprattutto ai problemi economici e sociali, e quello di « Ragioni narrative » il quale si prefìgge di recare un efficace contributo alle odierne correnti realistiche letterarie. Il Sud, insomma, offre ai suoi scrittori un compito che forse nel Nord si sta esaurendo: combattere la convenzionalità e la menzogna del pittoresco, in nome di una più seria e partecipe visione del destino dell'uomo. Una suora letterata Ci viene dagli Stati Uniti, anche se è di origine italiana. Si chiama Margherita Marcinone, ha studiato e si è addottorata alla Columbia University, sotto la guida di Giuseppe Prezzolini, e ora pubblica la sua tesi, un ponderoso studio biografico e critico su Clemente Rebora (L'inimagine tesa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma). Che un sacerdote si occupi di belle lettere rientra nella tradizione, che se ne occupi una suora risulta assai meno frequente. Ma la singolarità di questa autrice risiede anzitutto nella sua stessa figura ; una « personcina piccola — dice Prezzolini nella prefazione — che si muove rapidamente con dei passettini da cocciniglia, portando sempre un grande borsone pieno di libri e di carte »; ma una « personcina » mossa da un attivismo certo stimolato dall'esperienza americana, e che ha girato mezza Italia, si è recata al capezz.de del povero don Clemente Rebora già fatto imrnobile dall'infermità, ha scovato documenti, ha raccolto lettere, con un'alacrità non scevra 1 di pericoli (pare che qualche errore le sia qua e là sfuggito) e cclnurdrtcnqnctropbdmpsttsoutpss che ai nostri oculati ma pigri critici italiani deve sembrare sbalorditiva. C'è di più: la nostra «suorina » dà prova in questo libro di una spregiudicatezza esemplare e riporta certe parole « concrete » del Rebora giovane e non ancora convcrtito, clic qui non si potrebbero riprodurre senza far correre qualche brutto rischio ai nostro giornale. Le riporta con quel candore impudico degli innocenti, o forse con quello stoico distacco dalla più cruda realtà che si impongono, anche se religiose, le infermiere degli ospedali. Una ragione di più per proporre l'esempio di questo libro a certi cattolici militanti che della fede offrono soltanto il miele, e si credono obbligati, per sentirsi a posto con la coscienza, ad usare uno stile untuoso, accorato, trepidante e intollerabilmente carezzevole. La suora della Columbia University, oltre all'aver reso un omaggio a un poèta italiano, ha offerto ai timorati del nostro paese una prova di sincerità e di vera purezza d'animo. Scriver male A proposito delio stile, dirò così, parrocchiale: molti confondono lo scriver fiorito, ampolloso o bisbigliato con lo scriver bene, cioè correttamente, con perizia e fermezza; e così si buttano allo « scriver male », se ne vantano, e vanno predicando che bisogna abolire qualsiasi ornamento, sia pure quello di un semplice aggettivo. La sintassi, dicono, vada dove vuole andare, l'importante sono le cose da dite e non il modo con cui si dicono; e qualche sgrammaticatura, anziché togliere, dà forza e sapore al dettato. Ognuno scrive come può e come vuole; ma è diffìcile che uno scrittore esperto sbagli sapendo di sbagliare, e cada a bella posta in errori grossolani: così come è difficile, anzi quasi impossibile, che una donna giovane voglia apparire vecchia, o una donna avvenente cerchi di mostrarsi brutta. L'artista, si dice, ha nel proprio carattere qualche tratto femminile; e perciò tènde istintivamente a mettere in valore le proprie doti anche se vuol sembrare un modello di modestia. Ne segue che, salvo qualche caso molto singolare, si scrive male soltanto perché non si sa scriver bene. E le vanterie dello scrittore « tutto cose », « tutto realtà », sono molto più ridicole delle ambizioni « femminili » dei cosiddetti stilisti. Non si tratta, d'altra parte, di un fenomeno dei nostri tempi. E* sempre stato così. André Chamson, in un suo ormai vecchio ma sempre gradevole volumetto, FraRmeiits d'un Liber veritatis (Ed. Gallimard), cita una frase di Platone che mi permetto di citare a mia volta : « Tu devi sapere che parlare impropriamente non è soltanto ufi er1 rore nei confronti delle cose, ma anche un male che si fa alle anime ». Anche allora, dunque, doveva essere in corso un assalto di fautori dello « scriver male » contro i buoni scrittori. E se mi si osserva che Platone è ormai un superato, e che i nostri giovani critici d'oggi sono molto più acuti e attendibili, io, umilmente, rimango a Platone. Chiedendone scusa. G. B. Angioletti

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