Il diario di Romain Rolland di Guido Piovene

Il diario di Romain Rolland Il diario di Romain Rolland Il Diario degli anni di guerra 1914-19 di Romain Rolland, che, a qualche anno dalla sua pubblicazione, ci viene ora presentato in veste italiana, preceduto da un'ottima prefazione di Guido Piovene (Milano, Parenti), è vecchio ormai di quasi mezzo secolo. Tuttavia, non si può dire che abbia perduto gran che del suo interesse. Certo, molte sue pagine non serbano più se non un valore documentario o cronachistico. Ma esso rimane pur sempre uno dei maggiori contributi a quella «storia dell'anima europea durante la guerra delle nazioni», alla quale il Rolland pensava, scrivendolo, e una delle più significative testimonianze della crisi etico-politica del nostro secolo. E noi siamo indubbiamente in condizione d'intenderne la lezione molto meglio dei coetanei dell'autore: ancora legati, da un lato, alla concezione della storia e della politica come, dominata dalle grandi realtà nazionali e inclini, dall'altro, a cercale alla guerra giustificazioni moralizzatrici o provvidenziali. E' noto quale attitudine il Rolland prese, nel 1914, di fronte alla guerra e, soprattutto, a) «messianismo guerrafondaio» col quale essa venne impostata e condotta sia dai governi sia da gran parte degli intellettuali dei due opposti campi. Meno noto, per lo meno a chi non abbia letto i suoi diari e carteggi giovanili, usciti negli ultimi anni, e, specialmente, il suo diario di studente dell'École Normale di Parigi (Le Cloitre de la rue à"Uhn), che essa ebbe in lui radici assai remote: • anteriori all'influsso del tolstoiancsimo e del socialismo, con cui si usava un tempo spiegarla. Basti ricordare come nel 1889, a ventitré anni, egli reagì al fenomeno del boulangismo, che allora appassionava la Francia: con tale ribellione morale da indurlo a pensare di abbandonare il suo paese: «Non ci potrei più vivere: non può essere la mia patria quella che pensa a rinnegare la libertà ». . Gii è che già sin da allora la patria era, per lui, non tanto una realtà naturale o storica quanto l'incarnazione e il simbolo di certi valori (primi tra tutti la libertà e la giustizia), ripudiando i quali essa avrebbe cessato di esser per lui tale, di meritare devozione e amore. E, pur nutrendo per la Francia «un sentimento di rispetto e di orgoglio », egli confessava di sentirsi più repubblicano che francese («Sacrificherei la mia patria ■ alla Repubblica, come la vita a Dio») e di credere, soprattutto, nella » Repubblica ideale dell'avvenire, che comprenderà il monuo interoj». Aggiungeva, e vero: «Solo la Francia in Europa incarna la Repubblica ». Ma il patriottismo, inteso nel senso ristretto ed esclusivo del termine, gli appariva già come « un dovere imposto dalla fatalità dolorosa d'un mondo barbarico », destinato a venir superato nell'amore dell'Umanità: «C'è soltanto una patria: l'Amore; le altre sono il frutto dell'orgoglio e dell'odio ». Di qui il suo pacifismo: « Bisognerebbe organizzare le forze, istituire, se necessario, una Lega armata per imporre la pace... Bisogna soffocare l'odio e coloro che ne vivono. Hugo ha detto: "Disonoriamo la guerra!" Facciamo di più: uccidiamola! ». C'è qui, in nuce, il Rolland di venticinque anni dopo, il Rolland del 1914: incapace di vedere nel conflitto scoppiato in Europa se non una « follia stupida e criminosa », un « sacrilego » e inutile égorgement, e di accettare la realtà,, se non delle singole patrie, dei loro « sacri egoismi »; pieno di stupefatto orrore per « l'unanimità per la guerra » manifestatasi in tutti i popoli belligeranti; e cercante invano, di là da essi, quella più vasta « patria degli uomini » cui la sua intelligenza e il suo cuore avevan sempre mirato. Risoluto, sin dai primi giorni del conflitto, a tenersi au dessus de la mélée, — sopra gli odi e i fanatismi che travolgevano nella loro « demenza » tanti rappresentanti dell'alta cultura (un Bergson o un Hauptmann, per tacere dei vari D'Annunzio o Bnrrès), dell'internazionalismo socialista e delle divèrse confessioni cristiane, — Rolland non ne resta però mai au dehors. Anzi, in questo suo diario, ci appare impegnato come pochi nella tragedia che sconvolge l'Europa, moltiplicandone le rovine e rimettendo in forse idee, valori, civili consuetudini che sembravano acquisite per sempre Tanto meno, nel suo rifugio ginevrino, egli si disinteressa mai delle sorti del suo paese. La Francia lottava per la propria esistenza; e Rolland sente tutto il peso e la grandezza di questa lotta (non a caso ritorna più volte sul destino di Péguy); arriva anzi, un certo momento, lui che non poteva soffrire Clemenceau, a confessarsi « commosso dall'immagine di quel vecchi" che porta sulle sue spalle il peso terribile della più dura prova caduta da secoli sulla Francia ». Né, pur stimando neces¬ spè«ddpornmsgvniql sario « affrancarsi dall'idea di patria », disconosce che questa è, al pari della religione, una « grande fiamma ». Solo, rifiuta di servirsene, « anziché per scaldarsi, per bruciare gli altri » : per fomentare ed esasperare gli odi tra popolo e popolo, lo spirito di violenza e di distruzione, o per propugnare l'« irreggimentazionc » della cultura « al séguito degli eserciti ». Come già nel 1889, la patria egli la vuole « pura, umana, vittoriosa non solò con le armi, ma con il cuore ». La sua attitudine è, insomma, quella del etere o, meglio, dell'uomo di religione: che, en face d'un monde possedè de baine et de fureur guerrière, sente più che mai la necessità di affermare la preminenza dei valori di civiltà sopra quelli politici e mondani; e si sforza di « difendere dall'ingiustizia la propria anima e quelle di coloro che sono impegnati nella lotta », e di richiamare gli altri clercs al loro dovere specifico: quello di salvaguardare le sovrane ragioni della verità e dell'umanità. — Qui sta la parte più alta e più viva del suo Diario e della sua azione in quegli anni, per qualche altro aspetto meno persuasiva e meno valida. In questa appassionata difesa del comune patrimonio civile dell'umanità. Nel fermo rifiuto di sacrificare agli « dèi della Città » ( la déesse trance del Maurras o il « vecchio Dio tedesco » di Guglielmo li) la verità e la giustizia: «leggi non scritte» di cui nessuna ragion di Stato o « sacro egoismo » nazionale può mai imporre o giustificare la rinunzia. Nel costante sforzo per ricostituire, nel colmo stesso della tormenta, l'« unità morale àeìì'élite europea » : premessa necessaria della ricostruzione postbellica. E, soprattutto, nell'assiduo richiamo degli uomini di cultura al rispetto della cultura stessa: a non consentire a sofisticare e falsificare l'arte e la scienza, nell'illusione, e con il pretesto, di servire così la causa della patria. I frutti d'una tale «militarizzazione » e falsificazione della cultura, così largamente praticata durante la guerra (e di cui il Ululimi iiiMiiiiiiiiiiiiiimiiiniiiiiii diario del Rolland reca così copiose testimonianze), dovevan poi maturare, oltre che nell'immediato dopoguerra (in cui concorsero a rendere impossibile una pace, ragionevole), nel ventennio successivo: nell'asservimento, spesso volontario, della cultura ai miti e agli idoli dei regimi totalitari. E bisogna riconoscere a Romain Rolland, questo iiigénu passionile (come ebbe a chiamarlo Gidc), il merito d'essere stato tra i primi a presagirne i pericoli e a combatterne le manifestazioni: con un lucido impegno iutellcttuale e morale, sulle cui formulazioni ideologiche si potranno fare non poche riserve, ma che merita, in ogni caso, il rispetto di tutti. Paolo Serìni ■llllIMlItlllllllllllllllKlllllllllllllllllllllllllllllll