Hitler a Parigi

Hitler a Parigi Hitler a Parigi (Dal nostro inviato specialej, Parigi, 26 novembre. Entro nello studio d'un architelo e vedo che appeso al muro, dietro la scrivania, c'è un manifesto messo in cornice. 1 caratteri della stampa sono grossi, lugubri e leggo: «Cittadini di Parigi, le truppe tedesche hanno occupato la città. Essa è sotto un ^governo militare. Il governatore della regione prenderà le misure necessarie per la sicurezza delle truppe e per il mantenimento dell'ordine. Gli ordini militari devono essere eseguiti senza deroghe... ». Il padrone di casa mi interrompe nella lettura dicendomi: « E' il primo manifesto che i tedeschi hanno appiccicato nelle nostre strade il 14 giugno 1940. Lo tengo bene in vista per non dimenticare certe cose. Quattro giorni dopo, il 18, Hitler visitava Parigi e — partito lui — i suoi ci sono rimasti tra i piedi fino all'agosto del 1944 ». Chi mi parla apre una finestra dello studio e mi indica una massa grigi', nella pioggia del mattino. Mi dice: «E' l'albergo Majestic. Ci stava il colonnello Speidcl, quello che ha diretto la propaganda tedesca a Parigi. Come sembra già tutto lontano ». In quel momento (ecco come qualche volta viene in mente l'idea per un articolo) pensai che proprio in questi giorni corre per Parigi una strana e giusta propaganda: non più a favore dei tedeschi, della loro invincibilità, dell'ordine nuovo che volevano imporre, ma per mostrare, spiegare e provare proprio tutto il contrario. L'episodio, come dirò poi, non è da relegarsi soltanto nella cronaca, perché visto da vicino si può capire come abbia grande importanza nella vita dei giovani di Parigi. Oggi tre grandi cinema (il Capri, VAvertile e il Cinémonde, che è in pieno centro) proiettano il film di Erwin Leiser intitolato « Mein Kampf » e al Teatro Nazionale Popolare si recita una commedia-parabola di Bertolt Brecht dal titolo « La résistible ascension d'Arturo Ui ». Entrambe queste opere hanno per protagonista Hitler e mentre in quella cinematografica lo si vede come era nella realtà, nell'altra lo si vede invece sotto panni camuffati e simbolici. Il film di Leiser, col titolo: « Il dittatore folle » è già apparso sugli schermi italiani e un breve cenno basterà per ricordarlo. Avendo a disposizione gli archivi' tedeschi il regista ha organizzato un documentario sulla vita di Hitler dagli anni giovanili, quando sognava di diventare pittore, agli ultimi istanti, quando Berlino cadeva di fronte ai sovietici. La Storia è rapida e drammatica, fatta di prepotenza, di odio, infine di furore: si va dai delitti compiuti per raggiungere il potere alla distruzione sistematica nei cam pi di concentramento e sempre si hanno davanti agli occhi im magini di follia, di fanatismo e di crudeltà. L'opera teatrale è più complessa e nasce da altri intenti Si sa che Bertolt Brecht la scrisse nel 1941, quando era esiliato in Finlandia, e la sua parabola consiste nella rievocazione di vari episodi d'una ban da di gangsters americani, che hanno un parallelo con alcuni episodi della vita di Hitler. An che i nomi dei personaggi sono , di facile interpretazione e cosi Arturo Ui è Hitler, ed Emmanuel Gori è Goering e Giuseppe Gobbola è Goebbels e Ignace Dollfoot è Dollfuss e infine il vecchio Hindsborough è naturalmente Hindenburg. La trama, forse in maniera troppo semplicistica, ma non per questo mancante di forza, ci trasporta a Chicago dove Arturo Ui appoggia un gruppo di « racketeers », prima al servizio e poi alla testa di una bandite sca organizzazione per manipolare la vendita di frutta e verdura. L'opera è incerta tra l'essere un truculento spettacolo giallo o la parodia d'un grande dramma storico e ognuno può scegliere. Infatti la compagnia teatrale del «Berliner Ensemble», depositaria delle opere di Brecht, ha seguito la prima ipotesi sfociando nella caricatura e nell'ironia, mentre i francesi guidati da Jean Vilar hanno preferito la seconda ipotesi, raggiungendo risultati molto più per suasivi. Con una messa in scena sobria e coraggiosa, ben ritmata nel susseguirsi degli episodi, accom pagliata da effetti drammatici di luce e di musiche rigorose, la storia di Arturo Ui cresce a poco a poco e sfocia nel delirio di potere del protagonista. Si comincia col vecchio consigliere Hindsborough che in modo ingenuo rasenta uno scandalo compare il gangster Arturo che lo salva facendo uccidere alcune persone, ma anche lo intrap pota. L'ascesa ha così inizio e non ha più freni. Alcuni membri della stessa banda (come l'amico Roma) vengono eliminati; chi tenta di resistergli (come quel Dollfoot che vive in una città vicina) viene assassinato. Ne terrore si fortifica il successo d Arturo Ui fino ad essere rico nnzltedmccsz nosciuto capo assoluto in unaj nevrastenica c tragica acclamazione generale. Si sa che Bertolt Brecht voleva soltanto mostrare allo spettatore attraverso quali giochi equivoci sia possibile la nascita d'un qualsiasi fascismo e al di fuori d'ogni tendenzioso commento (il più facile è questo: come certa degenerazione del capitalismo possa risultare una buona sorgente) la regìa di Jean Vilar ha saputo trovare. il tono giusto. Egli infatti ha rimesso al suo posto una scena che l'edizione tedesca pone arbitrariamente a metà dello spettacolo ed ha fatto così per sottolineare il valore di insegnamento generale contro un pericolo che può sorgere in qualsiasi momento; e se questo non bastasse ci sono gli ultimi sei versi che parlano chiaro. Essi, scritti di certo dopo il 1941, anno in cui fu composta la commedia, vengono recitati da Vilar, il quale si toglie la parrucca che lo faceva rassomigliare a Hitler, e dicono: «Imparate a vedere invece di guardare stupidamente. Agite invece di brontolare. Ecco quel che una volta per poco non ha dominato il mondo, I popoli sono riusciti a vincerlo. Ma nessuno deve cantare vittoria fuori tempo: il ventre dal quale è uscita questa cosa immonda è ancora fecondo ». Dicevo, all'inizio, che Hitler è dunque in questi giorni sugli schermi e sulle scene di Parigi. I tre cinema che proiettano « Mein Kampf » sono sempre pieni e, verso sera, le code di chi aspetta il turno per entrare sono molto lunghe. Per curiosili di cronista sono andato a vederle: ci sono uomini e donne di mezza età, magari anziani, ma la maggior parte è di giovanotti e di ragazze. Servendomi d'una inchiesta fatta da- un collega francese che sarà pubblica ta su un settimanale, risulta che commento quasi generale di tali giovani spettatori dice: « Avevo sentito parlare di queste cose, avevo letto qualche libro. Mà non potevo immaginare quel che adesso ho visto ». E il discorso per gli spettatori dell'opera teatrale credo possa essere uguale. La compagnia di Jean Vilar recita nel teatro del Palais de Chaillot, una sala immensa, capace di 2800 posti, e per trovarne uno bisogna prenotarlo parecchi giorni prima. Lo spettacolo comincia alle 8 e 15 di sera e quando ci sono andato (già si era alla sesta recita) mi sembrò d'essere in un momento di punta d'una fiera campionaria. Anche qua i! pubblico era formato nella maggior, parte da giovani o da ragazze e tutti li vidi poi attenti, silenziosi, soggiogati dallo spettacolo. Vorrei tirare una conclusione da questo apparire di Hitler gesticolante, invasato, urlante, spesso di una comicità dolorosa, sempre d'una stupidaggine drammatica, sugli schermi e sul palcoscenico di Parigi. La conclusione è legata alle reazioni che provano migliaia e migliaia di giovani, che ho visto da vicino. Sembra che essi si trovino davanti alla riscoperta d'un pericolo di cui forse avevano sentito parlare, ma di cui non conoscevano l'immagine disumana, IIIIIIIIIIItlllllllNIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIHIimillW^ j e e e o r i . o èla violenza e l'immoralità. Nel guardare questi giovani all'uscita dal cinema o alla fine dello spettacolo teatrale, si poteva capire quanto fossero toccati da un passato che è appena dietro le loro spalle e come prendesse valore d'insegnamento attraverso le immagini del regista Leiser o attraverso le parole del commediografo Brecht. Che cosa dire ancora? Durante l'occupazione tedesca certi ragazzi che vivacchiavano nei caffè o nei locali notturni, liberi da ogni impegno, anzi rifiutando ogni impegno con la vita, erano chiamati « zazous ». Poi vennero i falsi esistenzialisti, poi i « blousons noirs», adesso (il termine è fresco, nato poche settimane fa) ci sono quelli chiamati « marincttes ». Come contrassegno portano calzoni scampanati alla caviglia, come i marinai, ed hanno sempre l'ombrello. Ogni tanto si parla di costoro, anche se sono poche centinaia. Naufragando nella" noia compiono poi 'imprese assurde, che finiscono in un articolo di varietà giornalistica o in tribunale. Ma nessuno parla mai degli altri che sono migliaia e che non avendo da vincere la noia hanno molte cose normali da fare: per esempio vedere al cinema o a teatro, attraverso im magini realistiche o attraverso la satira d'un poeta, la bestia hitleriana, dal suo principio alla sua fine, ed imparare così qualche cosa. Enrico Emaniteli! 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