Incontro con l'artigliere Rainis Antonio, classe 1895 da 24 anni custode del cimitero di guerra di Bligny

Incontro con l'artigliere Rainis Antonio, classe 1895 da 24 anni custode del cimitero di guerra di Bligny Ogni giorno, se fa bel tempo, alza la bandiera sulle cinquemila croci Incontro con l'artigliere Rainis Antonio, classe 1895 da 24 anni custode del cimitero di guerra di Bligny Abbiamo voluto recargli la promessa fatta su «Specchio dei tempi»: avrà la falciatrice meccanica per tagliare l'erba sulle tombe - Durante il conflitto del '15-' 18 girò su ogni fronte, con la testata d'un cannone da 65 sulle spalle: il Carso, il Podgora, il Pasubio, Cima Dodici, il Montello - Ferito, fu portato a Torino - Poi venne costretto a emigrare - Il generale Barbasetti, nel '36, gli disse del cimitero abbandonato - Andò, prese. la falce e si mise a lavorare con un salario di miseria (Dal nostro inviato speciale) BUgny, 16 novembre. Un alto silenzio mi accoglie nel cimitero militare di Bligny: tutto tace, solo il vento sibila tra le chiome dei cipressi e tra i filari grigi delle croci, quasi scuotendole. Non una voce, non uno strepito di macchine dalla strada, né di trattori dai campi vicini. D'improvviso il vento mi porta l'eco di un suono metallico, un lontano raschiare, che subito si arresta, laggiù, sotto le braccia della grande croce in fondo al cimitero. M'incammino verso quella presenza umana: il rumore è inconfondibile, così affilano la falce nelle nostre campagne i contadini, nel tempo della fienagione, con questo secco frusciare della pietra sulla lama. Ecco l'uomo della falce: è il custode del cimitero di Bligny, Antonio Rainis. Lavora, sotto il cielo già livido del crepuscolo, con gesto largo, solenne, reso più maestoso dal silenzio e dalla pace di quell'immobile reggimento di croci che Io attorniano, tutte eguali piccole, ..basse tra l'erba scossa dal vento. Antonio Rainis: i lettori non ne conoscono il nome, ma chi è stato attento alle storie che compaiono sullo < Specchio dei tempi > ne ha colto di scorcio la figura, in due lettere apparse nelle ultime settimane. Nella prima il lettore Giovanni Bonicatto raccontava il suo incontro, 15 anni fa, con il custode del cimitero di Bligny; lo vide nei giorni della Liberazione, curvo sulle tombe, falce in mano, silenzioso e paziente. Lo rivide poi, due mesi fa, ritornando in quei luoghi, con la falce ancora lucente in pugno, ma più curvo, più desolato, più grigio. «Non riesco a farmi assegnare una falciatrice meccanica — diceva l'uomo — ormai sono vècchio, non ce la faccio più, nessuno mi dà retta». Pochi giorni più tardi lo c Specchio dei tempi > ospitò una seconda lettera: un operaio italiano che lavora nel Belgio aveva visto anche lui, tempo fa, il vecchio falciatore di Bligny; era stato commosso da quel suo affaticarsi sulle tombe e mandava allo c Specchio > una somma destinata ad aprire una sottoscrizione per comperargli la macchina tanto de siderata, affinché gli fossero meno gravi gli ultimi anni del la sua missione. Antonio Rainis è un uomo di 65 anni, solide spalle, alte, statura, sguardo limpido e arguto, i capelli scompigliati dal vento, capelli grigi e duri; f friulano, di Tarcento, o me glio carnico d'un paese vicino a Tarcento che nel nome sembra chiudere un destino di fatiche oscure: Amaro, si chiama cosi il paese da cui Rainis parti 45 anni fa per la guerra e, più tardi, nel 1920 per venirsene in Francia a lavorare. Ascoltiamo la sua avventura, è una vita esemplare, che passa per i sentieri più umili e più aspri della storia nazionale dell'ultimo mezzo secolo. Rainis Antonio, classe 1895, puntatore scelto del 2» reggimento artiglieria da montagna, fa lo zaino di buonora. Nel 1915, alla prima squilla di guerra è già sul fronte. Le prime cannonate gli arrivarono a Sella Nevea ancora prima che scoppiasse ufficialmente la guerra; l'Austria, in quel luogo, non attese nemmeno il fatidico 24 maggio per farsi viva; cominciò a sparare la sera della vigilia. Da quel momento, Rainis gira di fronte in fronte, con la testata del suo cannone da 65 sulle spalle (100 chili): il Carso, il Trentino, Cima Undici, Cima Dodici, il Podgora. Partecipa alla presa di Gorizia, va alla conquista del Monte Fait, « il tremendo Falt» sospira l'uomo della falce. Poi il San Gabriele, la Bainsizza; nel 1917, dopo Caporetto, si ritira con il suo reggimento. « Io piangevo porche dovevo abbandonare la mia terra sotto il nemico ». La primavera seguente lo trova sul Piave. Offensive, ritirate, controffensive: sangue roccia e malanni, Rainis non manca mai a nessuno di questi appuntamenti. Gli dico a caso un nome: Par subio. « Sì, anche sul Pasubio sono stato. Mi ricordo, ci diedero per la prima volte II latte condensato... ». Gli dico altri nomi, sempre a caso, sempre tra i più sanguinosi della guerra: Montello, Asolone, Monte Grappa. Anche sul Montello, anche sull'Asolone, anche sul Monte Grappa Rainis ha vagato, sempre con il suo cannone a spalla. Quando fu verso la fine, e le truppe già incominciavano l'avanzata che si concluse con la vittoria, lo colse la malaria. «Il tenente mi ordinò di gettarmi dentro un buco, mi disse di aspettare. Avevo 41 gradi di febbre: mi buttò addosso tre o quattro mantelline e mi salutò: "Cisd, Toni, noi andiamo avanti, Dio te la mandi buona!"» Il buon Dio ebbe pietà di quel povero artigliere che giaceva febbricitante sotto il cu mulo delle mantelline, in un buco scavato dalle bombe sul Monte Grappa: gli mandò una barella, che lo raccolse, e da un ospedale all'altro lo portò fino a Vicenza, poi a Torino. « E a Torino — racconta Rainis — arrivò la notizia che avevamo vinto la guerra. Ci diedero il supplemento rancio, poi mi portarono in un altro ospedale, a Pinerolo ». Intanto era scoppiata la spagnola. Rainis, però, aveva già la sua parte di malanni, e la spagnola lo rispettò. Pece ritorno in paese, e per RvtspmvccsgfinmnnapcnluddvrRcqsqtnsogcmcrtsoaadfgMNitFsavsFmgumsdsmpè_ Rainis, cui la guerra aveva trovato tanto da fare, la pace non trovò un lavoro che gli bastasse a vivere. Rifece lo zaino, partì per la Francia a fare il muratore. E qui si apre un nuovo capitolo: per un po' la Francia gli sorride; Rainis diventa cementiere specializzato, e presto si fa una famiglia. Un figlio, due figli, tre figli, quattro figli. Poi, di colpo, incominciano i guaì: il lavoro viene a mancare, in Europa si odono nuovi squilli di guerra. Siamo nel 1936: Rainis sta andando al consolato italiano, a Parigi, per rinnovare ia tessera di ex combattente. Lo incontra il generale Barbasetti, addetto militare in Francia, che gli offre un'occasione: «E' morto — gli dice — il custode del cimitero di Bligny. Un infortunio sul lavoro, povero Zanetti! Non vorresti andarlo a sostituire?». Rainis, di andare a fare il becchino non ne ha voglia. Ma quando gli raccontano che cos'è Bligny, che cosa fecero quei cinquemila suoi commilitoni nell'unico fronte che egli non aveva conosciuto, un senso di pietà lo prende. < Erano otto mesi che il cimitero di Bligny nor. trovava un custode che accudisse alle tombe. Ormai l'erba sommergeva le cróci » racconta Rainis. Così andò, raccolse la falce che era cadu ta di mano al povero Zanetti, si mise a lavorare. «Prendevo ottocento franchi al mese. Ne avrei presi di più se fossi stato a Parigi a riscuotere il sussidio di disoccupazione. Ma io l'ho fatto per amor proprio », spiega Rainis. Di ciò che era avvenuto sulla Marna, ne sapeva ben poco. Non sapeva, per esempio, che il generale Albriccì, comandante del II Corpo d'Armata in Francia, un giorno si era pre sentato al Comando supremo, al maresciallo Foch, e gli aveva detto: «Maresciallo, i miei soldati non sono venuti in Francia per vedere la guerra, ma per farla». E il Maresciallo gli aveva indicato, sulla carta, un punto critico, dove le armate alleate già cedevano per stanchezza, ed era un settore delicato che apriva diritta la strada per Parigi. Albricci si mise sull'attenti, l'indomani parti con i suoi soldati. Ora, di quel Corpo d'Armata è rimasto questo reggimento di croci grige nel grande camposanto di Bligny, in cima a una altura, tra le colline tenere della Champagne, che il vento della Marna accarezza. Adesso, Rainis li conosce tutti per nome, i suoi cinquemila: soldato Miceli Antonio 75° Reggimento fanteria, caporale Martini Riccardo, soldato Ferrarini Primo, soldato Spadaro Giovanni, soldato Apostolico Domenico e così via, tutto il reggimento dei morti egli passa in rassegna ogni giorno. Rainis lavora tra le croci con un'alacrità attenta, piena di rispetto. Potrebbe stare all'orario: quante volte non abbiamo sentito, per fatiche tanto meno gravi della sua: «Per quel che mi passa il governo» ? Ma Rainis ha l'amor proprio e una naturale nobiltà interiore, 11 senso della sua missione, a guardia delle memorie più care e più lontane. Vorrete sapere come va a finire: è un sordido epilogo, in chiave contabile. Visitatori ne arrivano molti, anche illustri, ma l'uomo della falce, che ogni giorno, quando fa bel tempo, alza la bandiera su quei cinquemila morti, e ne ccsznIrpld cura le tombe con diligenza commossa e con fedeltà, è trascurato da tutti. Le assicurazioni francesi non lo conoscono, la Previdenza sociale in Italia non lo ha mai avuto in registro, e gli ha fatto già sapere che non gli darà né una lira di buonuscita né una lira di pensione; il Ministero della Difesa gli passa un salario di miseria, inferiore a quello degli operai francesi; e il consolato italiano di Parigi gli dice che è spiacente, ma la macchina per falciare l'erba non può pagargliela, « perché la spesa è eccessiva ». « E io sono vecchio, malato, stanco; non ce cla faccio più », dice Rainis. Poi ascolta la mia promessa, che qualcuno, dall'Italia, penserà a comperargli la macchina falciatrice. Si rasserena un po', ma di nuovo poi sì preoccupa: «E poi — mi chiede — pensa che il governo pagherà anche la benzina per farla andare? ». Gigi Ghirotti Antonio Rainis, custode del cimitero di Bligny, mentre lavora con la falce fra le tombe dei soldati italiani (Te