La pizzeria lucana

La pizzeria lucanaVIAOOIO X IV A ]&L B R I C A a pizzeria lucan LLa pizzeria lucana Le grandi distanze che separano le regioni diverse del continente americano, le larghe distese che rendono monotono anche il viaggio più veloce, a New York diventano brevissimi spazi, le poche decine di metri di un isolato: si passano, tra una casa e l'altra, invisibili frontiere, fra l'est e l'ovest, il nord e il sud, l'Europa, l'Africa e l'Asia: um passeggiata diventa un viaggio. Per il forestiero, che non può conoscere a fondo questo enorme infinitamente variato agglomerato di uomini e di cose, valgono, a far riconoscere i momenti diversi, a orientarsi nella ordinarissima foresta, come segni lasciati sui tronchi degli alberi in una selva, dei punti di riferimento: quel grattacielo, quella scritta, o una sottile e alta casa triangolare di Times Square, già vecchissima e quasi preistorica, che sembra costruita dall'Antonelli come una replica maggiore della sua famosa costruzione in corso San Maurizio a Torino, o la sua sorella quasi gemella che fa da avamposto verso il centro alla città bassa, ai suoi quartieri squallidi e quasi intatti di un'Ital'à dei primi del secolo, o di una Cina ormai inesistente. Ma, più eh; da questi riferimenti, si ritrovano i luoghi diversi da segni meno facilmente evidenti, da qualche cosa che è percettibile nell'aria, negli odori, nelle figure e negli atteggiamenti dei passanti, nel suono delle voci, correndo, attraverso le invisibili frontiere, da una mescolanza all'altra, dall'una all'altra indeterminata nazione. Mi trovai, una notte, rientrando in città per vie nuove, veloci, sconosciute, passate distratta mente conversando con l'amico ch-e mi guidava nella sua automobile, in un'atmosfera che d'un tratto mi parve familiare, come certi ricordi remoti che rinascono improvvisi nella memoria al giungere di un suono in altri tempi udito. vidi che stavamo correndo sulla Seconda Avenue, fra la Settantesima e la Cinquantanovesima Strada: tra poco sarebbe apparso sulla sinistra il ponte di Queensborough. Avevo vissuto, tredici anni fa, per molte settimane, in questa zona popolare e intermediaria, dove si affollano e si mescolano italiani, messicani, giapponesi, e incalza l'ondata degli arrivanti portoricani: casette basse e affollate, negozi modesti, movimento vivace anche nelle ore notturne, quando nei bar ancora si gioca ai birilli, e un vecchio antiquario traffica misterioso nella vetrina illuminata, e sguardi d'ogni colose si incrociano sotto le lampade, e visi di ogni razza si tingono di rosso, di giallo e di verde nell'alternarsi dei semafori. Era un'estate caldissima e umida: salendo le scale della casa che'mi aveva lasciato un amico musicista partito per l'Europa, vedevo, dalle porte degli appartamenti spalancate per il caldo, uomini seminudi coi piedi sui tavoli, dorsi sudati, bicchieri posati per terra, grammofoni gracidenti, ronzio elettrico, afa, sospiri, famiglie addormentate. L'aspetto delle strade dove ora passavo era del tutto diverso: alte case avevano sostituito le casette, nuovi colori tingevano vecchie facciate, nuovi negozi brillavano nel buio: ma qualche cosa restava nell'aria di identico e riconoscibile, un certo grado di provvisorio, di attivo, di indeterminato, come la grigia bandiera di una squallida speranza. E il ricordo improvviso era così evidente e insieme ineffabile, da costringermi a scendere dall'automobile per riconoscere il luogo e ricercarvi le cose conosciute. Ecco, all'angolo delia Cinquantanovesima, la pizzeria di Frank Ancona, ma diversa da quella che avevo lasciata, più elegante, più illuminata, tanto da tenermi in dubbio se fosse veramente quella. Entro, per una porta nuova, incerto. Mi viene incontro un uomo, dagli occhi neri, dal viso bruno e pai! ' > sotto i capelli grigi, che non riconosco: ma egli mi chiama per nome: n Carlo! » prima che io abbia il tempo di guardarmi attorno *e ricostruire in me la vecchia immagine. «Carlo, sei tornato!». Mi dà del tu alla maniera lucana, parla con quell'accento, a m: familiare, e mi saluta con la cordiale naturalezza di chi mi avesse visto ieri. E' il padrone, è lui, Frank Ancona di Matera. Molto più svelto di me nel riconoscere un amico, chiama i suoi camerieri lucani, quelli di un tempo, a risalutarmi, e subito mi costringe a bere un caffè col brandy, e poi un secondo, ed un terzo. Qui venivo qualche volta a mangiare, tredici anni prima Era, allora, nel caldo dell'estate; una stanza squallida e solitaria, qualche raro avventore sedeva annoiato al suono lamentoso e straziante di un canto negro che usciva dallo juke box nell'angolo. Il padrone si fermava a conversare con me, mi raccontava antiche storie leggendarie di Matera, del Conte Tramontano, delle rivolte contadine. A Matera era nato, in una famiglia nume¬ rosa; da più di quarant'anni non c'era tornato mai, serbando intatto il dialetto natio. Un giorno, che avevo avuto a colazione certe sorti di molluschi che egli chiamava « scunzilli », richiesto, ali t fine di un'intervista di un quotidiano sulla letteratura e sulpolitica italiana, quale fosse il mio cibo preferito, avevo risposto, per gioco, che erano appunto gli « scunzilli » della pizzeria della Cinquantanovesima Strada. La sera dopo, entrando nella pizzeria, era come fosse scoppiata una bomba festiva: un pranzo materano era pronto per me, i camerieri erano stati mandati ad acquistare le copie del giornale che aveva riferito quella mia risposta. E tale è l'influenza della stampa sul pubblico, che, nei giorni seguenti, la clientela un poco aumentò: cercai allora di provare a compire l'opera riparlando in altri articoli della pizzeria, e del suo padrone lucano. Ritornato in Italia, seppi poi che la pizzeria si era ripulita, rinnovata, era diventata un locale conosciuto. Così, ora, la trovavo diversa. Mi il padrone mi raccontava che gli affari non erano buoni, per le tasse che impediscono di vivere. Gli affitti sono cari: duecento dollari per l'alloggetto di due stanze e cucina: «Una cucina che non si può avere una moglie grassa, perché non ci potrebbe entrare ». Ho in bocca il mio toscano, ma Frank mi offri un sigaro americano, e insiste che io lo fumi invece del ■iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiniiuiiii vmio. Ormai ha cambiato clientela. Non è più il tempo di quelli che venivano fumando un De Nobili. I clienti sono americani, e vivono in un altro fumo. Frank è un vecchio emigrante, un piccolo capo della sua generazione di italiani. La Guardia giocava a carte con lui, e Corsi era un su" amico. Gli italiani potevano avere in mano il municipio, la polizia di New York: ma i tempi sono cambiati, e gli italiani non sanno camminare insieme. « Gli italiani — dice — sono come le papere ». Parliamo a lungo. Malgrado tutto, qualche cosa della desolata, amorosa Lucania rimane, non so come, nell'aria di questa stanza. Ci salutiamo con affetto. Cerco, nelle vicinanze, la mia vecchia casa, incerto, per il mutato aspetto della strada, fra due pnrte simili. Nell'atrio semibuio guardo sulle cassette delle lettere i nomi degli inquilini, se qualcuno rimanesse di quelli di allora. I nomi sono nuovi: Ripepi, Pipia, Picourt, Pinelli, Gagliano, Pensini, Furnari, Monteleone, Shigeru, Nakasone, Raia, Antiga Palo, Frost, Abate, Bozio, Scaccalossi. Italiani, un giapponese, un portoricano, qualcun altro, storie ignote di chi è arrivato di lontano: una casa, una sezione d'America. La scala è buia, il lume dell'atrio rWco c giallastro: passi risuonano' sul marciapiedi. Dove sono? Ripepi, Bozio, Pipia, Nakasone, Abate, Scaccalossi. Carlo Levi iiiiiiniiiiiiiiiiitiiiHiiiiiiMii miiiiimiiiiiiiiiii