II fatale 10 giugno di Paolo Monelli

II fatale 10 giugno DICHIARANIONE DI GUERRA , II fatale 10 giugno Eravamo alla vigilia della dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna, quella domenica 9 giugno del 1940, noi cittadini, e ancora non credevamo alla guerra imminente. C'era naturalmente chi già ne era stato informato, e nonostante il segreto d'ufficio aveva rivelato in confidenza ai familiari o ad amici quello che sapeva; ma in quei tempi erano tanti quelli che dicevano di sapere, e poi si manifestavano all'oscuro degli umori, delle risoluzioni, dei voltafaccia del capo, che anche alle indiscrezioni di coloro che erano davvero bene informati si finiva co] rin crederci. O meglio, ci si cullavi' nell'illusione che ancora una volta il dittatore avrebbe cambiato idea, avrebbe esicato davanti ad un passo decisivo come nell'agosto dell'anno precedente quando fu ormai chiaro che la Germania voleva la guerra; sì che finì, pur recalcitrando e mordendo il freno, a dichiararsi non belligerante. (E F8 dicembre del '39 disse al Gran Consiglio, e subito lo si riseppe, che bisognava aspettare che i due leoni, Inghilterra e Germania, si sbranassero fino a lasciare a terra le code; « e noi, caso mai, andremo a raccattarle »). Quindi anche noi giornalisti quei primi del mese di giugno del '40, sempre in bilico fra vaghe speranze e catastrofiche previsioni, ci attaccavamo più volentieri alle prime; chi aveva parlato una decina di giorni prima con Ciano, « sarebbe una rovina l'entrata in guerra, non abbiamo scorte, non abbiamo nulla, pensa che non abbiamo più-di cento tonnellate di nichel! »; chi con Balbo, « gliel'ho detto sulla faccia, al padrone, che è una pazzia mettersi con i tedeschi, mi è stato a sentire senza protestare », chi con Grandi che gli aveva data per certo la data del 5 giugno, ed il 5 giugno era invece passato liscio. Sapevamo inoltre che le nostre navi mercantili erano ancora in navigazione, e nessuno le aveva richiamate; « Ti par possibile dichiarare una guerra con il meglio della flotta mercantile nei mari o nei porti americani e asiatici?» (ma proprio questo avvenne: quante navi allo scoppio della guerra si trovavano fuori degli stretti; e andò così perduto un terzo, il terzo migliore, della nostra flotta mercantile). Così quella domenica già di pieno estate, calda, lucida, andammo in tre o, quattro a fare il bagno a Castelfusano; e ci andammo in bicicletta, perché da un pezzo era vietato l'uso ilcllc automobili per non sciupare il carburante, ed anche il caffè ci avevano tolto; da tanto tempo ormai, dal settembre del '39, che quelle angherie non sembravano più tali, solo seccature in cambio dello star fuori della guerra, ed a questo prezzo si potevano benissimo sopportare. Il viaggio di ritorno ci prese un'ora e mezzo e più, il crepuscolo ci colse che eravamo ancora fuori dei sobborghi cittadini, e subito ci accorgemmo di qualcosa di nuovo, scendeva l'oscurità e non si vedeva un lam pione per le vie, non una fine stra illuminata, finché ci trovam mo nella via Appia brulicante di folla, facendoci largo alla luce del cielo estivo ancora chiaro; ci dissero che era una esercitazione di « oscuramento totale », ordina ta d'improvviso, doveva durare tutta la notte; e ci si strinse il cuore, ebbimo per la prima volta la terribile certezza della guerra. Corremmo alle redazioni dei giornali, lugubri, afose, le imposte serrate, le candele sulle tavole; il dittatore, ci dissero, avrebbe parlato la mattina dopo al popolo dal balcone di palazzo Venezia. Nessuna illusione era più lecita. Due o tre mesi prima, dallo stesso balcone al popolo convocato, il dittatore aveva detto, gettandogli addosso il peso del suo arbitrio, — e anni di docile assuefazione alla dittatura avevano spento ogni sua reazione, lo avevano fatto insensibile all'umiliazione di essersi ridotto a tanto, dovere attendere inerte dal suo cenno che la sua sorte fosse decisa — due o tre mesi prima il dittatore gli aveva detto che il tempo delle parole era finito, che andasse bonino a casa, sarebbe stato riconvocato il giorno in cui egli avesse stabilito che cosa fare, per annunciargli la sua risoluzione. L'ora era venuta, non potevi essere elle la guerra. h il giorno dopo, davanti al clamore imposto e scomposto dei cittadini inquadrati, sorvegliati e spronati all'applauso da severi capisquadra, dei battaglioni di militi, di isterici ragazzetti ancora ben lontani dall'età di leva, pronunciò le parole fatali, « un'ora segnata dal destino batte nel ciclo della patria. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l'esistenza stessa del popolo italiano ». Par'ò a lungo, disse che una sola parola d'ordine, « Vincere », categorica e imperativa per tutti, « già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano ». E conchiuse, «Popolo italiano, corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore ». Restò a lungo al balcone a godersi le acclamazioni, senza avvedersi quanto fosse in esse di meccanico, cicca ubbidienza o leggerezza di fanciulli; e come mi f j po' raccontato, rientrò gongolante nella sala, assaporando golosamente gli evviva adulatori dei gerarchi, chiassosi come per una festa allegra. Attilio Tamaro, storico molto accurato, ma più bravo a ricercar fatti che a interpretare lo stato d'animo della gente, dice a questo punto nel suo « Vent'anni di Storia, voi. Ili », che « con spregevole menzogna Badoglio scrive che in piazza Venezia " un Decorarne inquadrato fra gerarchie e scagnozzi del partito aveva l'ordine di applaudire ad ogni parola del discorso " e che la folla si allontanò poi in silenzio ». Ma qui è meglio informato Badoglio. Abitavo allora in un albergo che si affacciava sul Foro Traiano; e poiché lungo il viale dei Fori Imperiali, ed il viale Minore che passa davanti ai iYlercati Traianei, avevano collocato gli altoparlanti, scesi a mescolarmi ai gruppi che ci si erario raccolti intorno; gente semplice, non comandata, non portata inquadrata alla cerimonia, gente ansiosa di sapere che cosa avesse stabilito l'inaccessibile capo della sua vita, delle sue fortune; tutti con la faccia seria, assorta, gli occhi a terra, come chi è gravato da sconsolati presentimenti; nessuno si a«!sociò agli applausi rituali, che scoppiavano sulla piazza alla fine d'ogni frase né alle invocazioni finali; sfollarono sbigottiti, in silenzio. Scrissi due anni dopo, con la memoria ancor fresca delle cose vedute, che « al popolo capitò sulla testa la dichiarazione di guerra come una bastonata inattesa; e tramortito e sgomento non gli restò che acconciarsi al suo triste dovere, tutt'al più ricominciando a vagheggiare l'assurda speranza di cavarsela alla fine per il rotto della cuffia ». E non poteva essere che così. Di tale guerra non s'era mai veduta la necessità. L'improvvisa sostituzione del nemico tradizionale e antico della nostra gente con francesi ed inglesi, compagni e alleati nella guerra di venticinque anni prima, riusciva ostica a molti. Nel 1939 l'annuncio della non belligeranza era stato un sollievo per tutti, accolto con manifestazioni di gioia dagli stessi gerarchi più giovani. Questo stato d'animo per tutti i nove mesi seguenti non sfuggì agli osservatori stranieri. L'addetto militare tedesco Von Rintelcn scrive in un suo rapporto che « la popolazione e l'Esercito italiano sono ostili alla guerra accanto ai tedeschi »; e parla di dimostrazioni contro l'ambasciata tedesca a Roma per protestare contro il patto russo-tedesco che aveva incoraggiato i russi ad attaccare la Finlandia. Sumner Welles, inviato speciale di Roosevelt, si accorge subito che non solo la vasta maggioranza del Paese, ma anche alcuni ministri fra i più importanti (Bottai, Grandi, Balbo) sono « totalmente e violentemente » contrari alla guerra. Il discorso di Ciano alla Camera, la fine di dicembre del '39, persuase tutti che la pericolosa amicizia fra Italia e Germania era finita. Si sapeva che le industrie di guerra lavoravano per la Francia e l'Inghilterra. Anche chi era ancora devoto a Mussolini e vedeva ancora in lui il palladio del¬ lamdttplfsccppznsrp•-crngnnrlnblvvegcscFczflpst la nazione, si aspettava che avrebbe trovato alla fine una machiavellica per tenersi fuori del conflitto e guadagnarci vantaggi a buon mercato. Come poteva aspettarsi una guerra il popolo che il dittatore teneva all'oscuro di tutto, ansioso di non fargli mancare panetti et circense;} La metà di maggio, del '40 ci fu il solito concorso ippico, con sfarzo e giubilo popolare; il primo giugno s'inaugurò a Napoli con giochi e feste l'esposizione coloniale. Da quel 10 giugno la nazione non ebbe più una notizia consolante, se non la rapida effimera riconquista di Tobruk. Soprattutto i primi giorni si vide •-•on sospetto che quella guerra che pareva così urgente iniziare non s'aveva alcuna intenzione di farla; alla dichiarazione di guerra non seguì per una decina di giorni alcuna nostra azione, non un passaggio di frontiera, non un bombardamento dall'aria o un'impresa navale; vennero anzi gli avversari a bombardare dall'alto Torino e Milano, la flotta francese comparve minacciosa davanti a Genova, e nessuna .rappresaglia si ebbe da parte nostra. Il 17 giugno, il giorno in cui i francesi chiedevano l'armistizio ai tedeschi, Mussolini ordinò di attaccare le aspre difese alpine della Francia; i soldati si mossero con coraggio, ma le solidissime posizioni avversarie, le orrende bufere di neve e l'impreparazione logistica li arrestarono quasi da per tutto. Cadeva l'ultima illusione, che la guerra sarebbe stata facile e breve. Paolo Monelli