Prima di andarcene

Prima di andarcene Prima di andarcene Perché le morti improvvise "ci feriscono di spavento (non le altre, lente, magari estenuanti, già presagite, qualche volta desiderate)? I discorsi che si sentono subito sono comunemente questi : « pensare che l'avevo visto pochi giorni fa. Stava benissimo, sembrava di buon umore », « l'avevo salutato due ore prima, la sua mano era calda e affettilo-^ sa ». Il primo pensiero di fronte alla morte è di richiamare la vita, il suo grido, il suo profumo e tepore; le tenebre, diciamo a noi stessi, sono iniqua interruzione della luce, perire è la rottura di una normalità, la normalità è vivere. C'è un altro pensiero, il più vile, o il più rozzo: quello che giustifica la morte come lo sconto, inesorabile e logico, di una tara fisica. « Già l'anno scorso — si dice — aveva avuto un campanello d'allarme », « ieri era pallido ». Sono due ribellioni iner-, ti, misurano la nostra miseria. Nessuno pare che accetti nella sua sconcertante verità e bellezza, la strana (ma così visibile!) immagine di Kafka, che di morte, di vane speranze, di difficili attese se ne intendeva : « Una gabbia andava alla ricerca di un uccello ». Sembra certo di vederla, ombra ben disegnata, quella oscillante, ma inarrestabile gabbia lungo la strada per captare il suo prigioniero, che, senza misericordia, vi finirà dentro. Ma quella sorta di pensieri ne nascondono un altro, che è il più importante, il solo vero che conti, afferrato il quale forse molte cose si spiegherebbero, o almeno un po' di pace, magari per breve tempo, simile a una piccola marea, coprirebbe il nostro cuore. Questo nascosto pensiero è che la morte più repentina in realtà non è mai tale, non è mai propriamente improvvisa; c'è stato un momento, anche solo un attimo prima in cui «quella cosa» è stata preparata, e tutta la natura era ferma in attesa. La morte non può essere una manifestazione inavvertita, alcunché di solenne la deve assistere, altrimenti essa non avrebbe dagli uomini la minima considerazio ne. C'è quell'attimo insomma, in cui il sacrifizio di una persona sta per essere consumato, che tutti gli esseri e le cose del mondo, sulla terra, nell'aria, s'irrigidiscono stupefatti; noi non ce ne accorgiamo, perché nulla in realtà è trasparente, ma sappia mo benissimo che nell'accordo di tutto ciò che vive, quella par ticella di vita che sta per mancare diminuisce la vita di tutti, e perciò è la vita di tutti, il respiro di tutto il mondo che sen te nella gola quel fiato che se ne va. Purtroppo, dicevo, noi non ce ne rendiamo conto, ed è questo il vero supplizio della vita, il rimorso che non ci abbandona e non ci può abbandonare mai: l'idea di quell'istante che non abbiamo avvertito, nel quale i nostri conti con colui che se ne parte per sempre sarebbero stati saldati. Invece la gabbia è scattata, l'uccello si dibatte inu tilmente e se noi stendiamo un dito, le sue beccate lo feriscono Se avessimo fatto in tempo, invece, di quante parole ci saremmo liberati! Richieste soffocanti di perdono, invocazioni al ritorno, gemiti di speranza, promesse, generose offerte di pace e molta, moltissima pietà. Perché^ il morente è un creditore che è doloroso non pagare, non risarcire; quel che ci lascia non è un debito che si estingue, ma una colpa dalla quale cercheremo invano di farci assolvere, e lui solo l'avrebbe potuto. Davanti alle morti improvvise ci afferra irrimediabilmente questa sensazione certa di colpevolezza. E* il solo momento alto della nostra vita segreta, quello della confessione totale. Perché in verità, anche se conoscevamo poco o nulla di quella tal persona, sempre qualcosa da parte nostra ha concorso a ucciderla Questo riempie di significato la frase comune « siamo tutti assassini ». La nostra indifferenza abituale, il nostro egoismo sia pure incosciente, o qualcosa d'altro, di aspro, di cattivo, l'ha indirettamente colpito. In genere (' l'assenza di generosità che uccide, la mancanza di grazia, il rifiuto di carità, quella goffaggine per cui non sappiamo parlare, ci pietrifichiamo, serriamo le anime come tombe; invece, se sapessimo parlare, anche con ira, anche con oltraggi, ma parlare! Il silenzio uccide; mentre la parola è sempre liberatrice, la parola è discorso, e sempre il discorso alla fine infila la via della pace e della verità. Perciò, dicevo, è abituale rifugiarci nel pensiero, così vergognoso, che una tara fìsica sia all'origine del morire improvviso: è la speranza di sentirsi liberi da ogni responsabilità, di addossare la cagione a un'offesa esteriore, misteriosa, senza alcun rapporto con noi. Invece non è vero; i medici non lo sanno, tuttavia ricordo un vecchio medico di campagna (ma era quasi un filosofo!) che sentenziava: «ogni male è un morbus tmimae ». Una sofferenza dell'anima, diceva, è alla radice di tutto. Una volta si sape¬ vzdcssl va dire la verità « gli si è spezzato il cuore » Oggi si ha fastidio delle parole non scientifiche, ma il cuore, proprio così, si spezza, anche se le donnette soltanto usano dirlo ancora. Nelle morti subitanee v'e, a cercarlo, un amaro segreto di solitudine, una desolazione soffocata fino allo schianto: il «morbus animae » del mio medico di campagna che, prima di guardare in faccia il malato, ne sapeva la storia intima. Capisco, di conseguenza, la preoccupazione che ci porta a chiedere: «che cosa avrà pensato in quel momento, prima di andarsene? ». Che esista quel mome.ito, dunque, siamo certi tutti. Esso sfugge a noi, non ci ha servito a nulla; ha potuto servire a chi muore? Proprio per essere stato scelto a turbarci col suo violento cancellarsi dal mon¬ ■iiiipiiiniiuiui mimmi iiiiiiiiiiiiiiiii do, noi carichiamo la -sua ultima presenza non d'irrazionalità, ma, proprio al contrario, di sublime ed essenziale razionalità. Quella vita che si consuma in un attimo, senza dubbio ha sentito un suo, anche fulmineo, avvertimento. Prima di andarcene, un pensiero si formula dentro di noi. Anche se qualcuno potesse dimostrarci che ciò non è affatto possibile, io sono sicuro che non accetteremmo questa spiegazione, o ipotesi; l'uomo se ne va da uomo, abbattuto mentre pensa. Noi vorremmo conoscerlo quell'estremo colloquio con le cose, quel pensiero fuggito all'ultimo battito. Come lo sparo di un fucile, da un luogo ignoto, che spezza l'aria. Di colpo gli uccelli volan via dall'albero. In qualche parte andranno. Franco Anfaniceli! miiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiiiiii iiiiiiiiimiii m

Persone citate: Franco Anfaniceli, Kafka