"Lavinia tra i dannati" di Carlo Terron al Carignano

"Lavinia tra i dannati" di Carlo Terron al Carignano "Lavinia tra i dannati" di Carlo Terron al Carignano L'ormai lunga consuetudine e infatuazione psicanalitica ha trasferito il problema del male dall'etica alla patologia, dalla metafisica a un determinismo pseudo-scientifico e materialista. Ir. tali circostanze il male non può più essere moralmente e religiosamente riscattato; al più, sanato empiricamente, o, peggio, accettato nella sua interezza, come fatale condizione dell'esistenza. Esistenzialismo non privo di una sua doloroFa drammaticità. Nei riflessi sulfurei di queste dottrine e di questa diffusa pratica di psicologia e d'arte, si elabora con intensa premed'tazione e si alza a forti effetti l'ultima opera teatrale dì Carlo Terron: Lavinia tra i dannati, tre atti eloquenti che rappresentano un mondo infocato, e soffocante. In una grande casa appiattita tra le risaie, sommersa da calori immensi, invasa da torbide nebbie che eccitano e sfibrano, vive una tremenda famiglia che si tramanda, di generazione in generazione, il gusto del crimine e della crudeltà e strane formule di espiazione, suicidi e sacerdoti. Emma è la madre (suo marito morì annegato nell'acqua lutulenta, dopo molti anni di pazzia), e cerca disperatamente di preservare, nell'ipocrito e gelido conformismo, l'onore familiare; Zita è Uiia. figlia perversa, che soltanto si ristora nel piacere fisico; Diego è un figlio infelicissimo, abietto, fradicio di vizio, e il suo vizio è Lavinia, la moglie. Tenero e infame masochista, nel desiderio di Lavinia si abbrutisce, e Lavinia 10 sprezza, e in questo sprezzo egli si esalta. Infine c'è il figlio Claudio, giovane prete, il volto csleste, l'anima pura della tribù. Tale, almeno, egli appare, e voi siete quasi convinti e consolati in questo raggio di bontà, quando l'autore scoperchia l'ultima nequizia. Il peggiore, In questo scambio di colpe e di rimorsi, è forse proprio lui, il sacerdote angelico. Seguendo in qualche modo la traccia quanto mai pericolosa di certi scrittori cattolici, come 11 Mauriac, sprofondiamo qui nella più strana confusione, quella del bene col male, limiti e margini deviati, segrete intenzioni e tentazioni e velleità manipolate con arditezza e non senza arbitrio. Quegli scrittori, sottilizzando sulle vie misteriose della Grazia, peccato e redenzione, hanno finito col cancellare le semplici distinzioni morali, così luminosamente iscritte nel Vangelo. Non si invade impunemente il giudizio di Dio; l'intellettualismo, orgogliosa e artificiosa ricerca degli estremi destini, corrompe tutto. Dove meglio l'uomo poteva specchiarsi, credere e sperare, proprio là prorompono ambiguità e scandalo. Ma ritorniamo a Claudio e Lavinia. Claudio dunque non è affatto un puro, anzi, tra i dannati, è, per dir cosi, il più dannato. A contatto della cognata Lavinia, la sua impurità affiora, si allarga come putrida macchia; v'era in quell'involucro di pia devozione un disgustoso satanismo: invidia, cattiveria, concupiscenza. Lavinia ha tentato di avvelenare il marito Diego, ed è stata processata e assolta, ed ora è tornata nella casa maledetta, accolta con tutti,gli onori dalla suocera conformista, che sempre tende a salvare '.a faccia, e con delirio di desiderio da Diego. Ma Lavinia, chiusa nel suo enigmatico, livido sorriso, dichiara di voler parlare soltanto con Claudio. Il sacerdote di famiglia, è natura, le. E invece non è naturale affatto. Rapidamente, Lavinia riesce a trarre dal cuore dello sciagurato il lungo male che vi si annida, lo circuisce e lo aizza: gli racconta che nelle notti della triste voluttà coniugale, ella intrecciava l'abiezione del momento all'immagine celestiale di lui: una specie di sacrilegio, un'assaporata profanazione. Di più, gli dice che non per reazione o vendetta di donna offesa ha cercato di uccìdere Diego, ma perchó soltanto nel delitto, nel compiere il male, ella si sente vivere pienamente. Claudio è travolto, come un complice; e ricorda e confessa certi suoi sadismi di fanciullo, e di aver sempre odiato il fratello, quella faccia buona e paziente e dolente, e di essersi dedicato al sacerdozio soltanto per sottrarre a Diego la sorte migliore; e riconosce la sua antica turpitudine. Cosi si compie lo scambio delle parti: strade oscure e sorprendenti della dannazione. Lavinia poi si uccide, Diego fugge e non fa più ritorno, Claudio invoca il Signore. Ora, qui si vede come con la concezione psicanalitica del destino dell'uomo, all'uomo rimangono ben poche scappatoie, si vede che una vita come quella &{ Lavinia, tutta chiusa nell'umiliante sottofondo patologico, nella struttura primitiva dell'istinto, non trovi il modo di redimersi. Lavinia, come la protagonista di Requiem per una monaca, si è fatta anzi un bozzolo di perfidia, una nicchia dentro il male, e se non ci si sente del tutto a suo agio, soddisfatta e accecata, come l'eroina di Faulkner e Camus, non saprebbe tuttavia come uscirne più. E qui pur si coglie l'errore umano di una certa letteratura e coltura d'oggi: queir immaginare che l'indiscriminato crimine naturale possa essere veicolo a una nuova ontologia: perdizione intera ed esteticamente perfetta, Ve assoluto » preso a rovescio. E' questa assenza di una selezione morale il gratuito, imperdonabile equivoco delle poetiche in voga. Che Carlo Terron abbia, nel suo dramma, agitato cosi vasti problemi e un'angoscia un po' arbitraria, un po' voluta, ma sconcertante e appassionante è degno di nota: duttile intelligenza che, nei larghi modi di una teatralità a tratti convenzionale, sa provocare la curiosità e la reazione dello spettatore. La tensione si fece infatti, in palcoscenico e in platea, sempre più acuta, eccitata, favorita dal dialogo accortissimo e sospeso, dal taglio abile delle scene, da una bravura che si rifa alla più esplicita drammaturgia ottocentesca e che applicata a così gelose e scabrose situazioni divenne particolarmente piccante e propagatrice d'ansietà è stupore. Dobbiamo dire che la rappresentazione (regìa di Orazio Costa) aderì al testo con stretto rigore: alta di tono, secca, sincopata, a larghi squarci di oratoria e di contrasto, insinuante e violenta, sicché le intenzioni dell'autore ci parvero compiutamente in¬ tese ed espresse. Che vi siano in questo spettacolo composito e denso, artificioso e ambiguo, venature d'ogni genere, tracce lontane, e sfumate e diverse, dal decadentismo dannunziano e naturalista, alle malizie simboliste, all'acredine dell'esistenzialismo contemporaneo, non v'è dubbio; ma la prontezza e agilità di Carlo Terron, e ia disciplina sciistica degli attori sono riuscite a raccogliere in un'emozione per dire cosi omogenea, e non priva di r.ero fascino, la varietà dei toni, la allusiva, o ruvida, e a volte sfuggente fantasia dei motivi, delle ragioni interiori. E il pubblico dopo l'emozione, ha calorosamente applaudito. Anna Proclemer ha disegnato, colorito, inciso il fosco, enigmatico e perdutissimo personaggio dì Lavinia con schematica potenza di attrice: una figura netta e approfondita, scheggiata e ferma, che attraeva nel suo gorgo la vita degli altri. Giorgio Albertazzi dalla meraviglia ingenua, qua-i infantile delle sur prime scoperte, di quel vedersi sempre più addentro, sempre più spaventosamente addentro, fi no al riconoscersi pieno di colpa, sino alla disperata confessione che è il suo crimine più inespiabile, ha tracciato la tremante e dolente caduta di un uomo. Benissimo Glauco Mauri nel tipo di quel marito tìmido, ossessionato e vile, affogato nel fango. E molto bene anche i loro compagni: la equilibrata e severa Margherita Bagni (la madre), Franca Nuti, Italia Marchesini, Mario Chiocchio. Insomma, un dramma, nella sua misura e nei suoi limiti, con la parziale verità e con le gratuite motivazioni, realizzato con sicurezza in palcoscenico. E il successo, che si era intravisto subito, dall'attenzione degli spettatori, si manifestò poi al secondo atto con particolare pienezza di battimani, e si rinnovò alla fine del terzo, quando, con gli interpreti, l'autore fu evocato più volte alla ribalta, f. b.