Un altro mondo di Guido Piovene

Un altro mondo Un altro mondo Ecco uno dei ricordi dei miei incontri con Berenson che mi ritornano più spesso. Ero andato all'esposizione delle opere di Lorenzo Lotto a Venezia. Non ho sotto mano il catalogo, e non so precisare esattamente in quale anno; direi quattro o cinque anni fa; Berenson era sui novanta. La sera andai a Maser da Marina Luling, nella famosa villa del Palladio e del Veronese. Appena entrato vidi Berenson, seduto sull'angolo di un sofà, già in smoking per il pranzo, molto elegante, con il solito plaid che gli copriva le ginocchia. Direi che l'estrema vecchiaia gli dava il medesimo genere di perfezione fisica che qualcuno raggiunge per brevissimo tempo nel primo anno della gioventù. Mi chiamò, mi invitò a sedere e cominciammo a discorrere della esposizione, che non aveva ancora visto. Berenson, come tutti sanno, aveva scritto mezzo secolo prima un libro su Lorenzo Lotto. Citava i quadri ad uno ad uno. Mi è rimasto impresso il discorso sul ritratto di un giovane che si conserva a Vienna. « Ha notato il bianco argentato della stoffa che fa da sfondo accanto al nero del vestito, e la fiamma della candela, gialla con un punto rosso in cima, eccetera eccetera? ». Questa analisi si ripete va per altri quadri. Confesso che non ricordavo tanti parti colari, sebbene avessi visto quadri poche ore prima. Evi dentemente, credendo di guardarli accuratamente, li avevo guardati in maniera più veloce, distratta ed un po' letteraria, senza quell'abitudine divenuta istinto all'osservazione precisa Ma Berenson mi disse che non li aveva più visti da cinquantun ni, e non vi era nessuna esage razione dovuta a una civetteria senile. Infatti i quadri del Lotto sono molto dispersi, e Berenson, dopo il periodo delle grandi peregrinazioni, non era più stato né a Jesi, né a Bergamo, né in molti altri dei luoghi spesso fuori degli itinerari comuni dove essi sono conservati. Dissi allora, perché lo penso, ma forse anche perché credevo di fargli piacere, che il Lotto mi sembrava grande quanto il Tiziano e il Veronese. Ma qui Berenson si ribellò e rispose che non era di grandezza paragonabile. Lorenzo Lotto, mi disse, è un artista psicologo, sottile, critico, analitico, intellettuale. Esso attira l'intelligenza e la sensibilità moderne. Ma non si può metterlo accanto a quegli artisti pieni, dominatori, prepotenti, la cui arte è uno sgorgo di abbondanza vitale,' naturalmente signori e sicuri di sé. L'essersi appassionato ad un artista come il Lotto, con la convinzione però che, per quanto possiamo amarlo, esso resti a grande distanza dai personaggi dominanti nell'arte quasi per ragioni di sangue, equivalenti, in altro campo, dei grandi condottieri, dei grandi uomini politici, rispecchia i suoi gusti e la sua formazione mentale. In quel tempo stava compiendo, a novant'anni, il suo secondo viaggio in Italia, fino in Sicilia, spingendosi in Libia. Non soltanto nelle città, ma anche nei luoghi fuori mano. Fu lui che, per esempio, mi consigliò di vedere il mosaico d'una chiesetta in un paese del Salcnto che aveva appena visitato. Confrontava le sue impressioni con quelle avute sessanta e settanta anni prima. Le confermava o correggeva; era condotto in parte dalla smania di muoversi su cui ci ha lasciato nel suo diario più recente una bella pagina; ma anche, ritengo, da un'idea di perfezione classica applicata alla vita. Cioè l'idea di una vita circolare, chiusa, in cui il vecchio tornava nei luoghi e davanti agli oggetti amati in gioventù, si riassumeva, rifiniva se stesso e saldava il ciclo. Il periodo della sua vita quando, giunto in Italia grazie ad una borsa di studio dell'Università di Harvard.Vaveva perlustrata tutta, spesso a pie di e a dorso di mulo, spingendosi in monasteri ed in paesetti senza strade, per scoprire opere d'arte, confrontarle, censirle, per individuare e delimitare correnti d'arte e artisti prima nebbiosi o sconosciuti, finendo poi col re stare in Italia per sempre, era il periodo nel quale si riconosce va di più. Ancora negli ultimi anni si infervorava parlandone. Il viaggio di studio era anche esplorazione, fantasia; la parola « pellegrinaggio », che adesso suona cosi trita, prendeva un senso autentico. Le parole più accese che ho sentito da lui so no quelle in cui descriveva il suo piacere nel guardare, gli anni trascorsi in uno stato di delirio estetico. Aveva il dono di ammirare con abbandono intero, dell'ebbrezza contemplativa, di farsi dare dalla vita, attraverso gli occhi, il « momento perfetto ». Una volta, parlando¬ grpPdseusdcafizqutz gli (è una conversazione che ho riferito su La Stampa a suo tempo) fui portato a una riflessione. Probabilmente gli uomini dei diversi tempi hanno facoltà che si perdono nei tempi successivi e sono sostituite da altre. Gli uomini del tempo di Dante, osserva Eliot, avevano la facoltà della visione religiosa e morale, cioè del sognare ad occhi aperti alti concetti intellettivi divenuti figure. Gli uomini della generazione di Berenson forse avevauna facoltà d'altro genere, quella dell'appagamento estetico : un piacere senza limite di fronte al bello, un senso di soddisfa zione totale, di gioia, di accrescimento di vita di fronte ad un'opera d'arte, che provocava appunto in loro quei momenti di perfezione. E* una facoltà che abbiamo perduto in gran parte; il raptus estetico in noi è raro, ostacolato, non intero e meno convinto. Ma il nostro errore è voler scorgere nella religione per l'arte degli uomini di quel tempo qualcosa di sbagliato o falso. Ragionando così noi ci mettiamo al loro posto con le nostre menti diverse. Gli uomini come Berenson riuscivano a farsi una casa esat tamente come loro, ch'essi sentivano come parte di loro stessi; a specchiarvisi dentro; a credervi per intero. E' il caso della villa « I Tatti » presso Firen ze, sulla strada di Settignano, che era veramente un'immagine elaboratasi con gli anni del padro ne di casa. Temo ci e quanti ne hanno Ietto in questi giorni sui giornali se ne siano fatti un'immagine che non corrisponde al vero. Essi forse la vedono se condo il modello della casa <c sfarzosa », « lussuosa », gli aggettivi inventati dalla volgarità ìppure come una casa museo Invece era preziosa con sempli cita. Quadri d'immenso pregio pendevano dai muri, stupendi oggetti stavano sui tavolini, ma trattati confidenzialmente, come si tratta l'oggetto ed il quadro qualunque; e non avevano paura di star vicini a un divano solo di comodo. Si pensava alla piccola corte d'un re studioso ed amante dell'arte. Rappresentava, quella casa, il meglio dell'ideale del tempo in cui crebbe Berenson, lasciandone invece da parte tutto ciò che, almeno da noi, ebbe di grossolano, provinciale ed' esibizionistico. Ricordo, in quelle stanze, la visita di una soBedsidlmdaft—g■miimiiiimmiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiiiiiniiitiiim scrittrice americana, giovane ed oggi nota. Veniva a conoscere Berenson. Irruppe nelle stanze, e con i modi confidenziali, propri degli americani d'oggi, si buttò su di lui, gridando: « Bibi (era il nome confidenziale che gli davano gl'intimi), permetta ch'io la baci ». Berenson, piccolo e minuto, si rattrappì nell'angolo del divano, e mettendo le mani avanti pregava: «No, no, per favore ». Pareva proprio spaventato. « E' inutile — mi disse poi — sono diventato europeo, è un genere di cose che non tollero più ». L'ultima volta che lo vidi fu l'anno scorso. Faticava a seguire molte conversazioni insieme. Mentre gli ospiti, numerosi, mangiavano in sala da prati zo, ne prendeva uno o due, e li portava a mangiare con sé in una saletta vicina. Una colazio ne a tre, Berenson, mia moglie ed io, fu il mio congedo da lui. A quattr'occhi il suo dialogo restava spiritoso, lucido, solo leggermente più lento. Quelli che hanno posto il meglio dell'uomo nella commozio ne estetica, che l'hanno perse guita per tutta la vita, in generale sono reputati egoisti. Ma nel caso di Berenson l'accusa non mi sembra giusta. Vi era in lui anzi un desiderio vivace, quasi puritano,, di proselitismo estetico. Egli riteneva che l'arte fosse veramente un mezzo per ingentilire gli uomini e portarli a un grado di umanità maggiore. Riteneva però che questo si potesse raggiungere soltanto mediante un amore per l'arte < un'intelligenza reale. I musei ( le chiese affollati di gente fret foiosa, le riproduzioni a colori che fingono di essere il quadro la divulgazione in genere, il tu rismo che sostituisce i <t pellegrinaggi », gli sembravano andare nella direzione opposta, pervertire cioè lo scopo umanizzatore dell'arte, toglierle, proprio con l'usarla in maniera indebita, i suo ufficio di civiltà. E' evidente che noi ci muo viamo in un altro mondo. Ma Berenson ci dava la sensazione viva che il mondo da cui usciva aveva la propria grandezza, se conservava, come conservava in lui, un sentimento ampio dell'uomo. Ci conduceva a vedere il mondo, che fu il suo, nei suoi valori veri, anziché nelle tante contraffazioni provinciali e volgari. Guido Piovene m

Luoghi citati: Bergamo, Italia, Jesi, Libia, Maser, Sicilia, Venezia, Vienna