Cavour e la Savoia di A. Galante Garrone

Cavour e la Savoia Cavour e la Savoia L'importanza della Savoia, nel grande decennio cavouriano di un secolo fa: un tema non mai affrontato dagli storici. Me ne parlò una volta, ricordo, Adolfo Omodeo, insistendo sulla necessità di studiare a fondo il peso che ebbero l'opinione e la stampa savoiarda sugli svolgimenti della politica di Cavour. Uno storico francese ben noto agli studiosi italiani, Paul Guichonnet, ha cominciato a colmare questa lacuna, due anni fa con un ottimo studio sulla Savoia e il Regno di Sardegna dal 1815 al 1R60 (Grenoble, 1957), e in questi giorni con un articolo Cavour et la Savoie apparso sulla « Revue de Savoie ». Le ragioni del disagio e del contrasto che vennero allora acuendosi tra la Savoia e la politica liberale del conte erano ad un tempo politiche, economiche, religiose. Lo Statuto, le riforme del '48, la prima guerra d'indipendenza, e poi le vicende del decennio di preparazione avevano straniato sempre più il ducato di Savoia dal resto del Regno sardo. L'asse della politica generale si spostava verso le altre regioni della penisola; e l'affluire in Piemonte degli esuli politici da ogni parte d'Italia accentuava (questo spostamento, e il diluirsi dell'elemento savoiardo nella compagine statale. Gli aristocratici, perdute le loro posizioni influenti di dignitari alla Corte di Torino, erano tornati, pieni di sdegnato corruccio, sulle loro terre, a inquadrare, con parte della borghesia possidente e col clero, le masse rurali. Anche gli alti posti nell'amministrazione e nella magistratura del Ducato si « piemontizzavano », suscitando risentimenti locali. Si diffondeva l'idea che il governo di Torino « non facesse nulla » per la Savoia, e che la « Siberia piemontese » venisse sacrificata « alle illusioni del sig. Cavour ». Il nuovo indirizzo antiprotezionistico, le ingenti spese per l'ammodernamento dello Stato, gli onerosi prestiti esteri sembravano ferire i tradizionali interessi della Savoia, aggravarne la depressione economica. In effetti, i benefici del nuovo, alacre impulso dato da Cavour all'economia, si sarebbero potuti far sentire, nel Ducato, solo più tardi, quando ormai il distacco dal Regno sardo era un fatto compiuto. Ma un'importanza ancora maggiore, nel determinare questi contrasti fra Cavour e la Savoia, ebbe la laicizzazione dello Stato. Le leggi Siccardi, le discussioni sul matrimonio civile, la secolarizzazione di molti ordini, scatenarono allarmi, risentimenti, violentissime campagne di stampa. Questa opposizione della Savoia fu un serio ostacolo alla politica cavouriana. La grossa pattuglia dei deputati savoiardi al Parlamento Subalpino (22 su 104) era composta in gran parte da clericali e conservatori arrabbiati. E gli storici non hanno fino ad oggi tenuto nel debito conto il grave inciampo che l'opposizione della destra savoiarda costituiva per il conte. Questo aspro, logorante dissidio si riflette, in tutta la sua patetica drammaticità, nei rapporti tra Cavour e il marchese Leon Costa de Beauregard, che era, di tutto il clan savoiardo, l'elemento più ragguardevole. Questo antico scudiero di Carlo Alberto, che aveva seguito il sovrano sui campi di Lombardia non già per sentimento di italianità ma per devozione alla monarchia, cattolico fervente, attaccatissimo al Ducato, era un vecchio amico di Cavour. Lo legava allo statista piemontese una certa affinità culturale, di largo respiro europeo, e un comune interesse per i miglioramenti tecnici dell'agricoltura. E' rimasta famosa una lettera del 1847 di Cavour a Costa de Beauregard, in cui il conte enunciava i suoi ideali e il suo programma di liberalismo cauto e moderato. Cavour l'aveva evidentemente scritta perché il dignitario di Corte ne parlasse al Re. Oggi il Guichonnet pubblica alcune lettere inedite di Cavour a Costa de Beauregard. Particolarmente belle e importanti sono quelle dei primi mesi del 1851, anch'esse destinate — è facile presagirlo — a restare come documenti storici di prim'ordine. Come per la lettera del 1847, il loro pregio maggiore sta nella perfetta coincidenza tra un preciso intento politico — a cui le lettere dovevano servire — e l'effusione dei più riposti sentimenti politici del loro autore. Nonostante tutti i segnk infausti, per la rabbiosa acrimonia dell'opposizione savoiarda, Cavour, con quelle lettere, faceva un ultimo, disperato tentativo di staccare gli elementi migliori dal clan reazionario, e di attrarli alla propria politica di justemilieu, o quanto meno d'indurii a un atteggiamento di benevola neutralità. Era un'illusione, che avrebbe lasciato un fondo di amarezza nell'animo del conte. Sta di fatto che queste lettere del '51 possono essere considerate una sincera, autentica professione di fede politica, alla vigilia del a connubio »; e ci pare che valga la pena di farle conoscere, nei loro accenti essenziali, t un vasto pubblico (traducen¬ do le citazioni dal francese, per maggiore comodità dei lettori). In una lettera del febhraio 1851, che si apre, affettuosamente, con le parole « Mon chcr Leon », Cavour riconosce che la politica del governo, lontana dalla reazione come dalla rivoluzione, dai retrogradi come dai demagoghi, non ha avuto finora successo in Savoia. iMa la colpa è da addebitarsi all'» esaltazione dei partiti estremi ». Ed è proprio la violenza del partito reazionario che porta legna al fuoco della propaganda rivoluzionaria. « 11 colore rosso d'un certo partito sarebbe infinitamente meno acceso, se un altro partito non si tingesse di un colore all'inchiostro di China ». Ancor più significativa un'altra lettera di quello stesso periodo. Cavour comprende bene 1 timori che lo « spirito demagogico » ha suscitato nel marchese savoiardo. Ma non si sente di condividerli, almeno per quel che riguarda il Piemonte. «Ci sono, a mio avviso, due maniere di combattere efficacemente la demagogia: o domarla con la forza materiale, cercando d'incatenarla per mezzo delle istituzioni del passato; oppure sottrarle la maggior parte della sua forza morale, col riformare gli abusi la cui esistenza dà un'apparenza di giustificazione alle sue declamazioni, e con l'effettuare le riforme che l'opinione pubblica reclama e che sono di natura tale da soddisfare le classi illuminate ». In Germania e in Francia si è scelta la prima alternativa. In Piemonte il governo ha creduto di dovere scegliere la seconda. Il risultato è che mentre l'influenza di Mazzini va crescendo in tutto il resto d'Italia, in Piemonte va quasi riducendosi a zero. « Il governo ha fede nelle dottrine della moderazione e del progresso; e crede che, alla lunga, la gran maggioranza del paese abbandonerà gli uomini estremi per riunirsi ad esso. Io sono persuaso che i retrogradi fanno il gioco dei demagoghi. L'esempio dell'Inghilterra e del Belgio ci prova che non ci sono governi solidi all'infuori di quelli che sanno prendere l'iniziativa delle riforme ». Ma il marchese Costa de Beauregard non poteva seguire Cavour su questa strada. E pochissimi anni dopo, sarebbe sopraggiunta la frattura irrimediabile. Cavour, tutore di questa opposizione capeggiata proprio dal marchese, avrebbe avuto parole amarissimc per l'amico d'un tempo. E il marchese non avrebbe taciuto la sua accorata indignazione per essere stato trattato alla pari dei seguaci e dei complici di Mazzini. Quasi a preannunciare il distacco della Savoia dal Regno sardo, i due amici si separavano per sempre l'uno dall'altro. A. Galante Garrone