La tragedia del mondo moderno di Guido Piovene

La tragedia del mondo moderno La tragedia del mondo moderno L'aspetto mostruoso di quello che chiamiamo « mondo moderno » è violentemente descritto in un libro di Elimir Zolla, Eclissi dell'intellettuale (Edizione Bompiani). Vi sono in questo libro le qualità del vero saggista; prima di tutto una logica ardente, che però rimane logica, e obbliga spesso a concedere più di quanto vorremmo. Qualunque riassunto congela libri di questo genere, che valgono per due motivi, la sottigliezza analitica e il calore suggestivo dcH"arcomcntazionc. Mi accontento perciò di segnalarlo al lettore e di indicarne la posizione morale. L'uomo, secondo il libro, è oggi in una fase avanzata (tragicamente avanzata; il «tardo industrialismo») del processo per cui è valutato solo in funzione di consumatore di prodotti diversi, materiali e intellettuali; forze divenute fatali sono perciò costrette a spersonalizzarlo, a renderlo « massa ». E' una privazione d'anima quella a cui l'uomo è sottoposto, in qualunque senso si prenda la parola anima, religioso o laico. Ala la parte più tragica di questa fase terminale della disumanizzazione è che chi la subisce non si rende più conto della propria tragedia. Non vi resiste più; l'aiuta ad arrivare all'estremo limite, cioè anela alla spersonalizzazione totale. Per di più, la giustifica c teorizza. Questa specie di niente che soffre di vuoto e di noia non domanda che riempitivi. Vediamo nel libro sfilare le immagini dell'uomo d'oggi, ridotto allo stato di posseduto nelle diverse circostanze: vita politica, religiosa, sessuale; quando cerca torbidi riempitivi nella pseudomistica, nella magìa, nelle droghe; quando si fa invadere dalla « immondezza sonora » della radio e delle canzonette, in quei campi di concentramento allegri che sono le spiagge, eccetera eccetera. Il suo stato permanente e assimilato a quello del giocatore, che non cerca d'essere lui, ma di fare la puntata giusta; anzi, l'uomo diventa egli stesso puntata, e il vincere gli dà modo soltanto di continuare a puntarsi (l'analisi del giocatore col suo « falso infinito » è una delle più torti che il libro contenga). In quanto agli intellettuali, questo mondo spersonalizzato può farne a meno, ed infatti li elimina trasformandoli in funzionari dell'industria produttrice merce per l'intelletto. Il senso del libro si può restringere in alcune definizioni, come « idiozia attiva », o « morte vivente ». Due titoli della letteratura russa dell'Ottocento, Annue morte di Gogol e 11 cadavere vivente di Tolstoi, sarebbero appropriati. Vi è in tutto questo libro una reale sofferenza. Non posso negare di esserne stato preso, leggendolo, in maniera sempre maggiore. Molto di quello che vi è detto corrisponde a ciò che penso, e alcune definizioni sono quasi identiche ad altre che trovo qualche volta in me. Ritengo anch'io che il «mondo moderno », che, volenti o nolenti, siamo costretti almeno parzialmente a servire, sia nell'insieme inaccettabile se vogliamo restare uomini. Con un aggravamento (o un conforto): non credo affatto d'essere un nostalgico del passato, ma piuttosto sono convinto che questo sia il « mondo moderno » solo perché crede di esserlo, ed in fondo non lo sia più. Non esiste nel libro niente che non sia strettamente logico. C'è piuttosto un eccesso, un abuso di logica, come del resto in altri scritti sugli stessi argomenti. E' il tipico abuso di logica di alcuni scrittori dotati di uno strumento razionale straordinariamente lucido, messo però in azione da un impulso all'invettiva e alla requisitoria. Il rischio allora è di cadere in una impossibilità di discernere il buono dal cattivo, e anche ciò che è caratteristico di oggi da ciò che è sempre stato. Quello strumento logico uniforma il buono e il cattivo, vi scopre c dimostra gli stessi motivi e le stesse leggi, con perfetta coerenza. E' il vizio in cui cadono i romanzieri quando per abuso di logica non riescono più a darci un personaggio che non sia perverso. Nel mezzo della sua diagnosi, Zoiia ricorda una massima di Flaubert la quale dice, press'a poco, che solo gli imbecilli vogliono ad ogni costo concludere Ma il bisogno di ricavare, ragionando, una conclusione, magari provvisoria, è anch'esso un bisogno dell'uomo, e non soltanto dell'uomo inumanizzato; se non altro per poter scegliere come si dovrà comportare. Zolla fa la diagnosi (il mondo moderno è cattivo). In quanto al modo di reagirvi, la sua è la posizione dell'intellettuale critico che rompe i ponti. Non accetta le soluzioni che gli vengono offerte (né quella comunista, né quella religiosa in senso corrente); vi identifica anzi lo stesso processo di disumanizzazione e le coinvolge nella stessa industria che produce anime morte. Il do- vere dell'intellettuale, o piuttosto dell'uomo cosciente dello stato a cui siamo giunti, prima di tutto è la ripulsa, la preclusione, il rifiuto di farsi inquinare diventando veicolo e agente del male. Poi, di contagiare in senso buono, diffondere il rifiuto; di fronte alle « masse » manipolate, combattere con la critica ciò che le rende masse. Una soluzione, insomma, di genere stoico o monastico, o così almeno mi sembra di avere capito. Sono convinto anch'io che questa parte di rifiuto di sé, di chiusura, perfino di sprezzo, sia necessaria. La vira d'oggi pone in modo speciale l'obbligo di non concedere, e impone una cura costante di disinfczione interna. Solo ritengo che una simile soluzione, limitata a se stessa, anche se accompagnata da una speranza (illusoria) di farsi centro di salute con la persuasione e l'esempio, sia disperatamente insufficiente, e anche disperatamente amara per la coscienza della sua vanità; sebbene non esista forse intellettuale che non ne sia fortemente tentato. Due ipotesi sono possibili. O l'uomo, come uomo, è un « essere antiquato », che non tornerà più ad esistere; e quella che chiamiamo la persona umana è stata solo un episodio, un intervallo felice (e illusorio), fra lo stato di barbarie e la riduzione ad automa. Allora noi siamo cosa-etti ad ammettere che questa è la verità, che la civiltà disumanizzante ci ha ridotti, seguendo un decorso fatale, al nostro vero essere. Le nostre difese individuali non ci serviranno a nulla. In questo caso, resta solo una difesa vera, il suicidio; e non vedo davvero da dove noi potremmo trarre la volontà di vivere. L'uomo dovrebbe fare come quel mostro leggendario, la tarasca che, disperato della propria mostruosità, chiese di essere annegato in un fiume; approfittando dell'ultimo suo barlume, dell'ultimo ricordo che gli resta dei tempi felici. Eppure non è così. ■lllllllllllllllltlllllllllltllllllllllllllllllllllllllllll Ciò che oggi vi è di più umano, il segno dell'umano, è il rifiuto al suicidio, la volontà di sopravvivere, e perciò la speranza. Rifiutarsi al suicidio, sperare, vuol dire accettare l'ipotesi che la disumanizzazione dell'uomo, la sua riduzione a massa, non è fatale, ma ha delle cause, e non è fuori della storia umana, ma dentro. E far di tutto per rimuoverla, combattere tutto ciò che è fatalmente costretto a produrre le masse, l'idiozia, la disumanizzazione, le anime morte, adattandosi anche a mezzi ed a criteri provvisori e imperfetti. Questa è l'unica probabilità su cui noi dobbiamo puntare per avere un « mondo moderno » più umano di quello di oggi; giacché il semplice chiudersi in una posizione di rifiuto di intellettuale critico sfocia anch'esso nel nulla. Occorre invece una alternativa di rifiuto e di partecipazione: non soltanto giocare il gioco, né soltanto salvare l'anima, ma tentare di giocare il gioco e insieme di salvare l'anima. Anche se agli intellettuali nel mondo di oggi questo è molto difficile, e non è mai senza sconfitte. Guido Piovene SIIItllllIllllliHlllllllllllllllllllIIIMMIIllllllIIIII

Persone citate: Flaubert, Gogol, Zolla