Il pittore Matteo Olivero

Il pittore Matteo Olivero UNA MOSTRA ED UN LIBRO Il pittore Matteo Olivero Saluzzo, 28 agosto. Da tempo si parlava, fra Cuneo e Saluzzo, d'una rievocazione, giustamente considerata doverosa, del pittore Matteo Olivero, nato ad Acceglio in Val Maira e morto da quasi un trentennio. Cuneo nel 1950 ne aveva onorato la memoria con una mostra di 58 opere, e il borgo natio, quattro anni dopo, con un monumento dello scultore Soma. Ma Saluzzo non poteva dimenticare il buono ed estroso « Mate » che l'aveva scelta come stabile dimora nel 1905 « per P°tor studtare.? lavorare di più e per essere più tranquillo», come aveva scritto all'amico Pellizza da Volpedo, e che all'ombra del bel s. Giovanni e fra I monti di Calcinerò e di Casteldelfino, aveva dipinto tanti quadri di un lirismo commovente. Cosi, nell'ottantennio della nascita dell'artista da un'umile famiglia, e promossa dagli enti saluzzesi e cuneesi, patrocinata dalla città d'adozione, auspice il sen. Luigi Burgo, la rievocazione è stata attuata nel modo culturalmente più utile: con una mostra che raccoglie poco mpno di ronto opere scelte fra le più significative, e con un libro che, fra testo critico, notizie biografiche, catalogo ragionato, bibliografia, tavole illustrate (più di cinquanta ed anche a colori), repertorio fotografico relativo a 376 dipinti, ci illumina compiutaniente sulla vita, bill temperamento, sulla statura artistica dell'Olivero. Dell'una e dell'altro dobbiamo essere grati ad Angelo Dragone, il quale con perfetta conoscenza di un tema già da lui sfiorato nel noto volume sui « Paesisti piemontesi dell'Ottocento », e con esemplare scrupolo di ricerche e di documentazione, ha condotto a termine egregiamente un'impresa non facili- e non lieve. Ma l'artista — Il cui nome a molti giovani tornerà nuovo — meritava questo notevole impegno, questa riscoperta di valori spirituali e plastici; ed appunto a codesti giovani ignari tanto la mostra quanto il libro vanno segnalati, proprio per le singolari anticipazioni di « modernità » figurativa che l'Opera dell'Olivero sorprendentemente ri vela. Un'opera che ci sembra lini pidamente definita dal Dragone là dnv'egll accenna a una visione « quasi in accordo con gli accenl marcatamente espressionistici del Viani migliore » e congeniale con la sensibilità « del primo Tosi e di. Morandi giovane», sviluppala « su una linea che, passando per Roberto Meli! e Gino Rossi, puntualmente vedrà i romantici ritorni del Carrà del CitiqwaJe e il neo-umanesimo che, nel frigido clima novecentista, s'annunciava nei drammatici paesi sironiani ». Nomi gròssi, i cui richiami subito portano la pittura del « montanaro » Olivero fuori da ogni chiusura provinciale: come del resto tornava naturale a chi, appena terminati gli studi all'Albertina di Torino sotto il Grosso, il Caldano, il Gilardi, era corso (miracoli della parsimonia materna^ uni luoghi fontanesiani ed avondlanl della Svizzera, prendendo poi contatti con Parigi, dove- l'amicizia con lo scultore Mérodack-Jeaneau gli dava la possibilità di presentarsi con successo nel 19)0. Ma, per stare in casa nostra nella cerchia piemontese, è innegabile che la conoscenza personale del Pellizza e gli scambi di idee col più romantico e spirituale « divisionista » italiano dopo il Segantini, influirono profondamente non tanto sulla pratica tecnica, quanto sul « sentimento » (allora la paroIS aveva ancora corso...) del paesista Olivero: che con il malinconico poeta di Volpedo si mise persino in gara nel dipingere divislonisticamente 11 sole. E qualche parola rfovette pur dirgli, specie nel trattare i primi piani in ombra triste lasciando in gioiosa luce il fondo alpestre, Cesare Ferie, sik coetaneo; cosi come In certi studi di colline alberate ritroviamo infatto il mite Idillio agreste di Camillo Rho. Un piemontese, dunque, nutrito, per dir cosi, dei succhi pittorici della tradizione paesistica subalpina; e un « delicato » nella percezione del fono, nella stesura del colore (folli alcuni bozzetti che precorrono d'un ventennio Sirnni), come lo era stato Enrico Reycend, il cui motto era: «La natura è sempre delicata». L'uomo, sotto la maschera d'una gaiezza talora bizzarra — e rimase famosa la sua apparizione quasi clownesca a Venezia, donde derivò una tela altrettanto famosa, lo Strambo in Piazza S. Marco — era, specie nell'età matura, d'una sensibilità quasi morbosa. Suo unico rifugio la tenerezza della vecchia madre analfabeta, che pure aveva intuito la sua vocazione d'artista e strenuamente, con dedizione infinita, l'aveva sorretto nelle prime prove: Ir madre tante volte ritratta per comporre il gran quadro L'attesa. E quando quella tenerezza gli mancò, visse ancora due anni, solitario, smarrito. Poi, come l'amico di giovinezza Pellizza, volontartamente entrò nella notte. mar. ber.

Luoghi citati: Acceglio, Casteldelfino, Parigi, Svizzera, Torino, Venezia, Volpedo