I teatri d'opera per non morire invocano l'aumento delle sovvenzioni di Gino Nebiolo

I teatri d'opera per non morire invocano l'aumento delle sovvenzioni Tutti parlano della crisi del melodramma, ma nessuno si muove I teatri d'opera per non morire invocano l'aumento delle sovvenzioni Se non verranno presi provvedimenti legislativi a favore degli enti lirici, molti di questi, alla fine dell'attuale stagione, dovranno chiudere i battenti - Grave passivo della «Scala» e dell'«Arena» (Dal nostro inviato speciale) Milano, 9' màggio. / teatri d'opera sono in crisi e non riescono a trovare il modo di superarla. Forse alla fine dell'attuale stagione molti di essi saranno costretti a chiudere i battenti. Il pubblico italiano, che per tradizione era il più tenacemente attaccato al melodramma, gli sta ora volgendo le spalle. E lo Stato, con le sue sovvenzioni magre e ritardate, non è in grado di garantire agli Enti autonomi lirici un minimo vitale. Sono decenni che il melodramma langue e geme per la sua povertà, ma adesso la situazione è davvero grave. Come per il teatro di prosa, all'origine della crisi c'è la preferenza del pubblico a ciò che, a minor prezzo, offrono il cinema, la radio e la televisione. I gusti degli italiani stanno mutando, e probabilmente non è estranea l'offensiva massiedi della canzone che con il suo gioco rumoroso e quotidiano sposta le preferenze, toglie spettatori alla lirica e li convoglia verso le proprie ma-, nifestazioni. I tifosi dell'opera, che un tempo gremivano i teatri, erano il borghese e> l'operaio. Oggi è pròprio in questi ceti che si registrano le defezioni più vaste. Gli Enti autonomi italiani — sovvenzionati dallo Stato, sottoposti a certi controlli, ma sostanzialmente liberi di gestirsi — sono tredici: la Scala di Milano, l'Ente Teatro Regio di Torino, l'Arena di Verona, la Fenice di Venezia, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, il Maggio Musicale di Firenze, l'Opera l'Accademia Santa Cecilia tiiiiiiiiiiiiiiiiiiifiiniiiiiiituiitiiiiiiiiiiiiiiitiitii di Roma, il San Carlo di Napoli, il Massimo di Palermo e t reatri- di Trieste e Cagliari. Tutti sono passivi. Qualcuno fieno segreti i bilamei, per pudore; qualcun, altro invece, per polemica, li rende noti. Conosciamo, ad esempio, quello dell'Arena di Verona, dove i disavanzi degli ultimi anni ammontano a 450-500 milioni e dove la situazione del 1957-58 era la seguente: uscite 570 milioni (3X5 per la rappresentazione di tre opere replicate venti volte e 45 milioni per interessi passivi); entrate £70 milioni (175 di incassi, 40 di contributi da enti locali e 55 di sovvenzione governativa). All'Arena, secondo quanto afferma il suo sovrintendente, Bindo Missiroli, gli spettatori paganti sono stati duecentomila, una cifra eccezionale, e gli incassi di botteghino costituivano il 60% delle entrate complessive: « Nessun altro teatro d'opera in Italia può vantare una percentuale elevata come la nostra ». Il teatro veronese ha varato nei giorni scorsi il cartellone (Forza del destino, Trovatore e Faust, con nomi come Giulietta SimionatOj Rosanna Carteri, Antonietta Stella, Franco Corelli, Ettore Bastianìni), ma non sa ancora come cavarsi dal ginepraio delle spese. Il sindaco e i dirigenti dell'Ente autonomo avevano pensato di affidare per quest'anno la gestione a privati e ne avevano chiesto l'autorizzazione al sottosegretario dello Spettacolo. La risposta fu un rifiuto e così il Comune dovrà trovare i cento milioni necessari. Finirà probabilmente per rivolgersi ad una banca, il che significa un iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiimiiitiiiiiiifiiB prestito oneroso e un aumento del disavanzo. Il Comunale di Bologna chiuderà il bilancio, il 30 giù? gno prossimo, con un passivo di cento milioni, dei quali 80 spesi per pagare vecchi deficit. A Roma il sovrintendente all'Opera parla di « momento critico > e del rischio che il teatro corre di cessare ogni attività. Il suo collega della Fenica di Venezia dice che nel 1954 lo Stato gli aveva concesso 172 milioni, ed erano insufficienti, oggi la sovvenzione è scesa a 112 milioni, quando a causa degli aumentati costi di produzione ne occorrerebbero non meno di 250. A Palermo, il soprintendente al Massimo non nasconde che la situazione è estremamente precaria: nel 1953 aveva ottenuto dallo Stato 202 milioni, calati ora a 12S. « Soltanto lo Stato può salvarci », dice il so printendente di Napoli. Che cosa si può fare per evitare che la crisi si concluda nel modo peggiore t Un mese fa nacque a Milano una vivace polemica sul rimedio che il sindaco prof. Ferrari proponeva per sanare il passivo della Scala, istituendo cioè un'addizionale del 3 per cento sull'imposta di famiglia dei milanesi. La iniziativa fece chiasso e, dopo essere stata dibattuta anche in Comune, fu accantonata. Un esame del problema ci è stato esposto da Antonio Ghiringhelli, so pr aintendente della Scala. L'Ente milanese non attraversa i burrascosi frangenti degli altri; in un anno, fra rappresentazioni e museo, ha contato 400.000 spettatori e il suo piano è di arrivare al mezzo milione. Ma la Scala è egualmente coinvolta nel diffiQile gioco. Se è vero che è l'Ente più solido fra quelli italiani e che incassa il 50 per cento di ciò che spende (ve ne sono che spendono 600 milioni per stagione e incassano 40 milioni; alcuni in una stagione introitano soltanto 10 milioni), può trovarsi da un mese all'altro di fronte a una congiuntura insostenibile. «Le cause non stanno solo nel diminuito numero degli spettatori, il problema è anche legislativo. Manchiamo di una legge, che ci è stata promessa da tredici anni », dice Ghiringhelli. Nel 1946 U Parlamento stabilì per gli enti lirici una sovvenzióne da prelevarsi da un fondo nazionale speciale, costituito con il 12 per cento dei diritti erariali sui pubblici spettacoli in Italia. Il fondo doveva essere suddiviso fra gli Enti in base all'esame dei bilanci, dei programmi artistici, e dell'attività svolta e da svolgersi; nella erogazione si doveva tenere conto che Milano,' Roma e Firenze erano gravati in maggior misura perché mantenevano masse stabili (orchestra, coro, balletto, tecnici, impiegati, ecc.). L'aliquota del 12 per cento fu aumentata nel 1949 e diventò 15 per cento. Ma l'aumento aveva una durata limitata, di due anni, dopo di che sarebbe caduto. Nei due anni il governo si impegnava, di preparare una nuova legge che regolasse l'intero ordinamento degli Enti lirici. La legge non giunse in porto e l'aliquota, nonostante le ptulcste^ si restrinse al 10 per cento. Nel frattempo erano stati preparati programmi, assunti impegni e gli spettacoli costavano sempre di più. < La Scala non chiede l'impossibile — afferma Ghiringhelli —. Venga la legge, al più presto, e che sia serie, e definitiva, che non susciti campanilismi e rivalità; i soldi siano ripartiti secondo criteri equi, tenendo conto delle esigenze, dell'importanza e della tradizione dei teatri; si cerchi finalmente di dare una struttura omogenea alla lirica italiana. Quando lo Stato manterrà fede alle promesse e ci elargirà una sovvenzione adeguata, pari cioè al costo delle masse che gravano per metà sull'intero bilancio (l'altra metà va ai' cantanti, ai maestri, ai registi, ai coreografi, per le scene, i costumi, le scuole) soltanto allora non si parlerà più di crisi». L'Ente milanese ha un de ficit di 200 milioni annui, re lativamente modesto. Dal fondo nazionale nel 195S ha ricavato 590 .milioni. Il teatro dell'Opera di Parigi e quelli di Vienna godono di sovven zioni di due miliardi all'anno. A chi obietta che lo Stato non dovrebbe spendere quattrini per il melodramma, Ghiringhelli risponde citando gli esempi dell'estero: <Non c'è grande teatro lirico nel mondo che non si sostenga sui contributi. La lirica è spettacolo, ma soprattutto cultura. In Francia, Germania, Austria, l'aiuto statale arriva fino al 65 per cento, al 50 per cento in ■Russia. E negli Stati Uniti il tRockefeller Center* sia spendendo un patrimonio per allestire un teatro' che dovrà superare quelli - della vecchia Europa ». Gino Nebiolo