Il terzo colosso di Enrico Emanuelli

Il terzo colosso Il terzo colosso tRtpspeftuliasII giorno di Pasqua l'ho trascorso con uno zio che ha soggiornato a lungo, tra il 1906 e il 1914, in Cina. A quei tempi egli, partendo da Genova o da Napoli, raggiungeva Sciangai e poi risaliva a Pechino per via di terra e i suoi viaggi duravano su per giù un mese, lo pochi anni fa, partendo da Roma e in acreo, ho raggiunto Pechino in tre giorni e mezzo. Incontrandoci quasi subito i nostri discorsi piegano e girano intorno alla Cina, con una specie di ossessione che deve risultare comica agli altri ascoltatori. Questo zio ha adesso ottant'anni, ma non soltanto per tale motivo i suoi ricordi cinesi Io riportano ad un mondo che non esiste più; al contrario i miei ricordi mi riportano ad un mondo che rapidamente sta prendendo fisionomia con una forza che molti ignorano, ma non per questo devo tacere che anch'io, ■ qualche volta, ho la sensazione di parlare di cose già trapassate. Sovente, con un'ombra di ironica vanità, questo zio mi dice: «Tu non hai conosciuto la vera Cina ». Egli è fonte inesauribile di avventure, di aneddoti, di descrizioni; e siccome qualche volta ha timore di passare per visionario, aprr un album di fotografie, che mostra come documenti decisivi. Ecco un'adunata dei pochi italiani allora a Pechino: uomini in' divisa d'ufficiale, donne vestite alla moda europea del 1910. « E questo qua — mi dice indicando sulla foto un bambino di cinque o sei anni — è Valerio Borghese, che doveva diventare comandante della X Mas ». Ecco un ricevimento al palazzo d'Estate, quand'era ancora viva l'ultima imperatrice, in un fasto cortigianesco vicino alla putrefazione. Ecco un gruppo di banditi in ginocchio ed il carnefice armato d'una lunga, ricurva mannaia, abile nello staccare le teste con un colpo deciso. E' una scric raccapricciante: in una vedo i disgraziati in attesa, in un'altra alcuni corpi già privi di testa e distesi sulla strada, in un'altra ancora vedo un fiotto di sangue zampillante da un collo, che sembra un grosso tubo clastico. Dico a mio zio: «Chiudi l'album. Se tu oggi rivedessi la Cina non riconosceresti più nulla. Neanche gli uòmini, nemmeno la loro mentalità ». Ali risponde, sempre con quell'ombra di vanitosa ironia: «Ma tu credi forse d'aver visto la Cina e conosciuto- r cinesi? ». * * L'interrogativo resta e pesa nell'aria. Proprio in questi gior- ] ni, sul nostro giornale, leggo gli I articoli di Robert Guillain che descrivono la Cina così come e dalla fine dell'anno scorso. Mi] sembra che non sia già più quella che Guillain ed io abbiamo visitato insieme tre anni fa. Solo, come un viaggiatore qualunque, ero arrivato da un giorno a Pechino e confesso che mi sembrava d'essere diventato muto e sordo. Chiuso nella cabina di due aerei, prima da Roma a Hong Kong, poi da Canton a Pechino, ero dunque disceso dal cielo in una città e in mezzo a gente che parevano sfuggire ad ogni immediata, direi umana valutazione. Ero in attesa di un interprete. Ero in attesa dei primi contatti con persone che mi avrebbero aiutato. E l'attesa diventava penosa perché mi sprofondava in una solitudine mai prima d'allora provata. In questo pozzo della solitudine, alla fine del primo giorno mi capitò di sentire, in un corridoio dell'albergo, parlare in francese. Fu più forte di me: mi presentai ai due uomini che, di fronte alla porta d'una camera, parlavano una lingua comprensibile; ed uno dei due era Robert Guillain (l'altro un giovane architetto cinese, che aveva studiato per cinque anni a Parigi). Da quel momento, e per tre mesi, non ci lasciammo più dividendo con reciproca sincerità le meraviglie, le preoccupazioni, la noia, le fatiche e le sorprese. Io venivo da Roma, ma Robert Guillain da Tokio, dove abitualmente risiede. Egli allora, e con maggior ragione oggi, era considerato un esperto di paesi e problemi orientali. Per di più aveva fatto numerosi soggiorni in Cina e se si sommavano risultava che, in varie riprese, c'era stato quattro anni. Quando ci trovammo a Sciangai (si veniva da Ciunking e per cinque giorni avevamo navigato sul Fiume Azzurro), mi condusse i vedere l'albergo dove abitava nel 1949, proprio nei giorni in cui le truppe di Mao Tse-tunK erano entrate in città. « La vigilia — mi raccontò — il sindaco di Sciangai aveva dato un grande pranzo e assicurato che la città era imprendibile. Il mattino dopo sentii sparare. Mi affacciai alla finestra e vidi 1 carri armati comunisti venire avanti ». In quei tre mesi, spesso costrcti. a dividere per giorni e giorni lo stesso scompartimento ferroviario, la stessa camera d'albergo, la stessa cabina sui bai- telli fluviali, imparai a conoscere nRobert Guillain: un uomo mol- cto onesto, puntiglioso, preoccu- rpato di vedere la verità e di pscriverla, anche se non sempre piacevole ai suoi sentimenti. Che erano e ancora sono, perche fanno parte d'una forma mentale e di un carattere, quelli di un cattolico di sinistra. C'era in lui qualche cosa che ricordava il prete-operaio. E devo anche averglielo detto. In tutta questa storia quel che più importa non è quello che io dissi a lui, ma quanto lui disse a me. Tra le molte cose, che mi furono in vario modo, ma sempre utili, voglio isolarne una, che ancora ho nelle orecchie quasi l'avessi sentita appena ieri. In più d'una occasione egli mi disse « Vedi? Io pretendo di conoscere in maniera diretta, come testimone personale, la Cina e i cinesi. Tra il 1929 e il 1949 ho vissuto qua parecchi anni. E se (eravamo nel ro?6) mi avessero detto quanto hanno fatto dal 1949 ad oggi, io avrei risposto che — conoscendo la Cina e i cinesi — non era possibile. Avrei risposto che erano storie della propaganda. Fanno quel che fanno con metodi che condanno, con disprezzo della vita umani, con durezza militaresca, ->n sagacia poliziesca, ma hano realizzato un Paese che non riconosco più. Questo non è tutto. Siamo nel campo materiale. Passiamo ad un altro campo: dirci che hanno mutato il modo di ragionare di seicento milioni di uomini ». * * Allora, 1956, guardavamo una Cina, che adesso il mio compagno di, viaggio descrive già tutta diversa. Dunque: non soltanto la Cina di mio zio è per sempre scomparsa, ma quella che io stesso ho visto pochissimi anni fa è quasi un ricordo pallido. Ho un attimo di smarrimento quando ripenso a quella massa di seicento milioni di uomini e di donne, ridotta oramai come un alveare infaticabile, sovreccitata, guidata e dominata da un'ape regina ora tollerante ora prepotente, ora bonaria ora dittatoriale. E' come assistere allo scoppio atomico di una collettività immensa, la più grande che sul nostro pianeta si trovi riunita sotto un unico comando Ancora l'altro giorno Robert Guillain denunciava la fatica umana che il nuovo assetto sociale impone ad ogni cinese; ma, CctqclmslscPpuprliiiiimi un iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii nella sua probità, diceva anche che riporre in questa fatica spe ranze per una ribellione è sem plico fantasia di ottimista, Torno al mio pensiero: di i i a 9 Cina in Cina, nello spazio di pochi anni, avremo sulla terra un terzo colosso. Se giudico da quel che ho visto e da quello che oggi Robert Guillain dice, l'attesa non sarà lunga: mettiamo dieci unni. Allora i cinesi saranno settecentocinquanta milioni, vagamente formeranno una specie di disumana famiglia, al comando di un solo partito. Provate, tra un Lascia o raddoppia e l'altro, tra una mondana uccisa e una guappa mcdiocvalc processata, che pure tanto interessano, a pensare che c'è a nellol'alveare cinese Si tratta, insomma, di intravedere un po' di futuro Enrico Emanuelli JCllllllllllllIllllllIllllllllllllll[lllllllllllllllllllllll

Persone citate: Mao, Robert Guillain, Tokio, Valerio Borghese