Un prete patriota di A. Galante Garrone

Un prete patriota Un prete patriota Sul- finire del Settecento, quando i francesi' in Piemonte salirono al potere, il prete casalese Francesco Bonardi, poco, più che trentenne, sir precipitava a Vercelli a invocare che le truppe repubblicane si spingessero a Casale. Alcuni giorni dopo, rio minato Accusatore pubblico nel tribunale di Alta Polizia, in un discorso sulla piazza di Casale inveiva contro l'antico regime, quando «credere ed obbedire ciecamente era virtù». Il mite abatino sembrava diventato' un altr'uomo. «Se qualche insensato nemico della Democrazia e della, virtù eccitasse il debole alla rivolta, sarò .prete come Mose ed Elia*. Ma la biblica terribilità di quel focoso ammonimento veniva subito temperata: «Se quelli abbruciavano col fuoco della terra e del cielo gli infedeli, io men severo, mi accontenterei di accusare -gli aristocratici e i fanatici». Amore non odio, era il suo program' ma. E difatti, non infierì né insevi, né allora né poi. Xa sua agitatissima vita è stata oggi ricostruita, dopo decenni di fruttuose ricerche; in un ricco studio di Arturo Bersano, pubblicato dalla Deputazione Subalpina di Storia patria {L'abate Francesco Bonardi e i suoi tempi. Contri inno alla storia delle società sé grete). Di recente, su queste colon ne, abbiamo presentato il già cobino monregalese Felice Boa gioanni. Di ancor più salda tempra morale ci appare il «prete patriota » Bonardi (cosi lo chiamò Mazzini), che, nato a Viilanova, era stato allievo di fervidi giansenisti al seminario di Casale Monferrato, e fin dalla prima giovinezza aveva scorto in Rousseau l'assertore di un « Cristianesimo incorrotto, religione santa e sublime per cui tutti gli nomini figli dello stesso Dio si riconoscono per fratelli». L'esordio rivoluzionario è di breve durata. Anche a Casale l'albero della libertà è atterrato (come scrive un contemporaneo) «a furia di popolo e al suono delle campane». Bonardi ripara a Genova, mentre gli austro-russi dilagano in Piemonte. E di là scrive ai poveri della sua Villanova, esortandoli alla pazienza, alla bontà, allo zelo attivo del bene («Non rosari, benedizioni e processioni, tutte cose queste a cui si dà il nome di pietà: la pietà vera è operosa ») e soprattutto a non abbandonarsi a sfoghi di vendetta contro i loro persecutori: « Vi è oltre la duina una giustizia umana che li colpisce di quando in quando; già questa giustizia, non è lontana».. Dopo Marengo, e il trionfo del Bonaparte, si pone anche per lui, come per tanti altri patrioti della sua generazione, il problema se convenga collaborare al nuovo regime. E la risoluzione a cui si appiglia, è quella dei molti che allora entrarono nella magistratura, nelle carriere amministrative, fiduciosi di poter contribuire all'abbattimento dell'antico ordine di cose. «Non bisogna abbandonare la nave ». Con questa sincera illusione, con questi propositi, non pochi giacobini allora credettero di salvare la loro coerenza ideale. Bonardi, nominato sottoprefetto a Voghera, parte «vestito interamente da laico, con l'uniforme da granatiere ». Ma, co me dice bene il Bersano, è « crisi di abito, non di coscienza », perché prete apostata egli non fu mah Dal 1804 al 1811, è a Parigi, deputato a .quel Corpo Legislativo -che il Pecchto argutamente chiamava l'« ospedale dei muti». Ma di anno in anno cresce la sua insofferenza del dominio napoleonico. L'antico giacobino si ritira nella natia Villanova, e qui, in veste di sindaco, impegna una difficilissima battaglia per il sollievo delle plebi rurali. Sono gli anni in cui l'estendersi delle risaie nella zona, a scàpito d'ogni altra coltura, aggrava gli stenti e la malaria di larghe masse agricole. E* una lotta strenua, contro le pretése fiscali del governo centrale, sempre più oppressivo, e i signorotti locali: i «ladroni longinqui e propinqui ». E' fatale che, tra il declinare dell'Impero e i primi anni della Restaurazione, Bonardi si lasci attrarre nelle società segrete: Adclfia, Sublimi Maestri Perfetti, Federati; e che, alla fine, si schieri con gli insorti del '21 che proclamano la costituzione di Cadice. L'anziano sacerdote è fuori di sé. Quando gli insorti giungono da Alessandria a Villanova, invita gli ufficiali a brindare a casa sua, costringe il sindaco a offrire alla truppa quattro brente di vino, incita i paesani a gridare « Viva la Costituzione », impreca contro i tedeschi («quei birbanti, quei ladri, .quei porci») e schernisce come » soldati del. papa » le truppe rimaste fedeli al sovrano. Di li a poco, saranno tutti altrettanti capi d'accusa. U processo e la condanna sono inevitabili. Bonardi, dopo essersi nascosto qua e là nel Monferrato, si rifugia a Roveredo in Mesolcina, nel cantone dei Grigioni. £ qui vivrà fino al 1834, in attesa del «giorno della giustizia inevitabile ». E' povero come Giobbe, vive come può e veste da pitocco: cosi confida a un amico. Ma non accetterà mai un soldo di compenso .per funzioni di culto. L'esule si è ormai votato a una lenta, sotterranea opera di propaganda,- e dà mano all'attività patriottica della tipografia- Ruggia. Disapprova le imprese avventate, e' nel 1831 sconsiglia la progettata spedizione <iì Savoia. Negli ultimi suoi anni è attratto nell'orbita di Filippo Buonarroti; ma scriverà due articoli per la Giovine Italia di Mazzini, firmati, con qualche esagerazióne d'età, «Un parroco ottuagenario». E in questi articoli, come acutamente ha notato per primo il Saitta, sono palesi alcuni spunti sansimoniani. L'umanità, egli dice cori santa ingenuità, si avvia sicura verso un'era di pace. «Le antipatie' nazionali si spengono con meravigliosa rapidità », e l'attività degli uomini si dirigerà verso le arti e le scienze. Qualcuno paventa l'irruzione dei nuovi « barbari», e cioè delle « classi-industriose » che, avvilite dall'ignoranza e dalla miseria, si leveranno dai campi, e dalle officine « domandando diritti e pane fi Egli è certo che il graduale miglioramento delle classi lavoratrici si compirà in una nuova società «governata dal produttore, dal dotto e dal virtuoso ». Anche in questi suoi utopistici vagheggiamenti, egli è pur sempre l'« amico dei poveri », come 10 avevano chiamato a Villanova. La sua fede nel cristianesimo evangelico, istillatagli dai preti giansenisti al seminario di Casale, fa tutt'uno con la sua fede nella libertà: «Si deve a questo cristianesimo democratico se noi non siamo cosacchi o calmucchi... Se fra tanta ignoranza e tanti delitti non è perito il nome del Vangelo bisogna dire che la libertà e l'eguaglianza abbiano la radice nel cielo e nel cuore dell'uomo ». Nel suo candido ottimismo, spera sempre di ritornare in Italia, nel suo dolce Monferrato. Poco prima di morire, nel maggio 1833. scrive al nipote: «Ti annunzio ora non più con tono profetico, ma in parola di pura verità, che al più tardi sarò con te a mangiare i primi acini di moscatella che rosseggeranno, e quei fagioli dell'occhio misti ài tagliatelli che mi fanno gola da tanto tempo». Il sogno felice dell'esule non doveva compirsi. Gli rimaneva 11 conforto di una coscienza tranquilla. Al nipote Guglielmo, che si recava a Pavia per studiare, scriveva: «Pensa che Severino Boezio, scrivendo nelle carceri di Pavia l'aureo libretto De con solati ove philosophiae, era più tranquillo di Teodoriro che lo imprigionava. Noi pure penammo, eppure viviamo e viviamo senza rimorsi perché penammo per la giustizia». A. Galante Garrone