«L'ottavo giorno della settimana»

«L'ottavo giorno della settimana» SUIvIvO SOHEMfcMO DE)I, IylDO «L'ottavo giorno della settimana» II discusso film tedesco-polacco di Alexander Ford, che si preannunciava audace e polemico, ha rivelato limiti piuttosto modesti (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 26 agosto. Ieri il film delle proteste tedesche, oggi il film delle proteste polacche. L'ottavo giorno della settimana ha in realtà fatto un suo giro piuttosto laborioso, sui cartelloni dei Festivals di quest'anno. Prodotto nella Germania occidentale con una partecipazione della Polonia, fu regolarmente annunciato a Cannes e poi ritirato all'ultimo momento in seguito alle categoriche insistenze della delegazione polacca. Non meno regolarmente annunciato a Locarno, fu poi ritirato in seguito alle vive insistenze della Mostra di Venezia, che desiderava riserbarsi il film. Infine, regolarmente annunciato al Lido, suscitò proteste polacche a non finire, sarebbe stata per la Polonia una vergogna, ne sarebbe stata < denigrata», e via dicendo. Ma la formula che non si era potuta fare scattare in tempo per Cannes, era scattata per Locarno e per Venezia. Il film aveva due produttori, l'uno^ polacco e l'altro tedesco; lo avrebbe presentato quest'ultimo; il film, tedesco-polacco, sarebbe così diventato soltanto tedesco; e i polacchi, ufficialmente, non avrebbero avuto più nulla da obbiettare. Sono le piccole alchimie dei Festivals, per i loro cartelloni. Il film è tratto dall'omonimo racconto di Marek Hlasko, un giovane scrittore polacco, di indubbio talento. Il racconto, recentemente pubblicato anche in Italia, apparve due anni or sono in Polonia, nella rivista Tworczosc. E' angoscioso, quasi allucinante. Offre, con una" spietata acutezza, e con toni persino violenti, un quadro della recente vita di Varsàvia. Desolazione, miseria, giovani sbandati, non una speranza, non un punto fermo. Poche citazioni, a caso: < Tutti sono stanchi, due sole cose uniscono la gente di Polonia, vodka e stanchezza»; « Dove dobbiamo andare? Non lo so, sulla terra non c'è posto per gli innamorati »; c A che vale la vita quando dinanzi a tutti i posti è piantato il cartello "Vietato"?»; c Non ti iscriverai più a niente, non avrai più bisogno di credere a nessuno. Nessuno ti ingannerà più: né lo Stato né le donne »: * Quello che la vita dovrebbe essere: pace, libertà». Basterebbero queste poche frasi per chiedersi: ma allora, In Polonia, gli scrittori sono effettivamente liberi di esprimere ciò che vogliono? Lo erano. Poi sono venuti i noti giri di vite. E da circa un anno Marek Hlasko vive a Parigi, in patria è ormai considerato un fuoruscito. * * Si sa che le proporzioni e gli elementi di un romanzo non sono di solito i più adatti a essere contenuti in un film, numerosi e complessi come sono. Meglio si presta un racconto, alle cadenze di una narrazione cinematografica. E pochi racconti si potevano prestare a una riduzione per lo schermo come L'ottavo giorno della settimana. Non molti personaggi, un breve arco di tempo, dialoghi nervosi, scorci potenti. Il testo, appena e accuratamente snellito, avrebbe potuto offrire un ottimo treatment per un film. Ma si è avuto paura, di restare fedeli a quel testo. E ciò lo si può capire, se non altro da parte del comproduttore polacco. Quel testo è anche, infatti, una requisitoria anticomunista. Lo si è quindi voluto molto alleggerire, molto semplificare; e si è finito per annacquarlo al punto di renderlo quasi insapore. Speranze e delusioni di tutta una gioventù uscita dalla guerra e dal primo dopoguerra, alle prese con mille difficoltà, mille ostilità, un nuovo regime. Ma quella gioventù, nel film, non fa che bere e ubriacarsi e ballare, In un provinciale e monotono esistenzialismo da periferia. Due giovani, Agnese e Pietro, sembrano reagire a quel marasma, vi reagiscono. Lei è una studentessa di filosofia, lui è uno studente di architettura. Hanno una visione netta, e dolorosa, di quanto li circonda. Tale visione è il necessario presupposto per riuscire a superare quanto li circonda. Se non vi riusciranno, la loro amarezza e il loro dolore non potranno non essere disperati, insanabili. Ma quando quella non riuscita nei film si profila è soprattutto perché i due, avendo deciso di appartenersi, non riescono a trovare, in tutta Varsavia e dintorni, e in alcune giornate di maggio, un modesto qualsiasi rifugio, e per pochissime ore. Così quel loro vano peregrinare può alla fine apparire piuttosto miserabile, per non dire altro, e alquanto grottesco. Infine Agnese, che fino dagli inizi ci era apparsa una ragazza di un forta carattere, padrona di una sua indubbia intelligenza e di una sua-innegabile volontà, e che aveva sempre reagito a quelle disavventure con uno sdegno persino caparbio, si dà infine e d'un tratto a un ultimo venuto, senza che una ineluttabile esasperazione, come nel racconto, ve la spinga, ve la costringa. E anche lo stesso titolo, la chimera di un ottavo giorno della settimana, il solo che possa promettersi felice, se del racconto è come un'epigrafe, del film rimane una intenzione, la più vistosa, la più pretenziosa; e non le giova un appiccicato « lieto fine », dopo un'ampia colorata parentesi un po' troppo alla Molnar. * * L'altro ieri un Caldwell, alle prese con una riduzione cinematografica del suo romanzo Il piccolo campo, ci aveva ancora una volta dimostrato quante siano le differenze essenziali fra libro e schermo. Oggi, e per l'ennesima volta, ce lo conferma L'ottavo giorno della settimana. Se di un romanzo o di un racconto bastasse tratteggiare un sommario di episodi per averne poi dallo schermo una emozione diversa quanto si vuole ma pari, come intensità, a quella letteraria o addirittura poetica suscitata dal romanzo o dal racconto, le « riduzioni » sarebbero facili imprése. Sono invece tra le più difficili. Perché, da quel sommario di episodi, che di per sé possono anche dire poco, bisogna trarre una emozione cinematografica, con i mezzi propri della regìa, dello schermo. E' questo, di solito, il ponte dell'asino, dal quale cadono anche autori e registi illustri. Alessandro Ford, d'altra parte, a questi non appartiene. Pur essendo oggi il decano della cinematografia polacca (un decano di si e no cinquant'anni), si era dapprima formato con dei documentari. E' del 1932 il huo primo film a vicenda, presenterà poi a Venezia Fiamme su Varsavia nel 1948 e una Giovinezza di Chopin nel 1953, due film che negli annali del Lido non hanno certo lasciato una loro impronta. Molto probabilmente non la lascerà nemmeno il film d'oggi. Si può benissimo comprendere l'attesa che aveva suscitato con le ripetute polemiche che lo avevano seguito, come si è detto, da un festival all'altro. Si può anche comprendere come i più direttamente interessati a quelle polemiche fossero indotti a sopravvalutarlo, sia per ragioni di sinistra, e di' avversione, sia per ragioni di destra, e di compiacimento. Ma, obbiettivamente considerato nella sua portata espressiva, può apparire come uno di quei film che ai festival di solito si definiscono minori. Il regista del 1958 nulla aggiunge e nulla toglie al se stesso del 1953, del 1948; e di questa sua ultima fatica citeremo infine, anche per cortesia, la protagonista, Sonia Ziemann, una ex-ballerina che ha poi partecipato a svariati film, da Berlino a Vienna, da Monaco a Roma. Mario Grorno

Persone citate: Alessandro Ford, Alexander Ford, Caldwell, Chopin, Marek Hlasko, Mario Grorno, Molnar, Sonia Ziemann