Dall'isolamento all'egemonia di Luigi Salvatorelli

Dall'isolamento all'egemonia POLITICA AMERICA NA Dall'isolamento all'egemonia Si ricorderà il chiassa, e si potrebbe dire lo scandalo, suscitato al principio di quest'anno dalle conversazioni tenute a Londra, alla BBC, dall'ex-ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, George Kennan, sulla politica mondiale, e il contrasto fra i due blocchi. Il Kennan proponeva, nel quadro di un accordo generale di disarmo, il ritiro dall'Europa occidentale delle forze armate inglesi e americane, contro lo sgombero delle truppe sovietiche dall'Europa orientale. Più ancora che la tesi in sé — discutibile come tutti i compromessi — sorprese il corollario che. il Kennan vi soggiungeva, circa la situazione in cui si sarebbe trovata l'Europa occidentale di fronte all'URSS all'indomani di quel ritiro. Quando — egli diceva — le forze armate degli Stati Uniti e della Gran Bretagna non si trovassero più sul continente, il proteina delia difesa per i popoli continentali sarebbe in prima linea un problema di sanità interna e di disciplina in seno ai diversi ordinamenti sociali e nazionali. Posto che sanità e disciplina ci fossero, codeste nazioni sarebbe ro state in grado di far comprendere all'URSS che nel loro seno non c'era nessuno disposto a favorire la sua causa; e allora non avrebbero avuto più bisogno di guarnigioni straniere per garantirsi da un attacco sovietico. I lettori de « La Stampa » ricorderanno come codesta tesi provocasse una risposta di Acheson, l'ex-segrctario di Stato di Truman, tra sbalordita e indignata : risposta che « La Stampa » pubblicò in copyright per l'Italia. Solo dopo quella polemica, e stimolato da essa, ho letto il libretto del Kennan, Diplomazia americana 1900-1950, nella traduzione italiana pubblicata da Garzanti. E' una analisi critica della politica estera americana nel Novecento, degna di essere letta, e meditata. Con una formula felicemente sintetica, Kennan dice che gli Stati Uniti, rispetto alla loro posizione nel mondo, sono passati in questi cinquantanni da un senso massimo di sicurezza a un senso massimo d'insicurezza. Egli non risparmia critiche alla politica estera del suo Paese. Già nella brevissima introduzione Kennan dice che l'impostazione teorica e pratica della politica estera americana, dal tempo della guerra ispano-americana alla fine della seconda guerra mondiale, fu inadeguata: e, a giustificazione almeno parziale dei dirigenti, soggiunge che «le deficienze da parte dell'America nel comprendere i propri rapporti con il resto del mondo, e il proprio interesse di plasmare tali rapporti, erano profondamente radicate nella coscienza nazionale, ed ogni correzione sarebbe stata davvero difficile ». Il che, come si vede, estende la critica addirittura a tutta la nazione. In verità, nella stessa esposizione del Kennan possiamo trovare qualche traccia di quei difetti. Il Kennan, al principio della sua analisi, si estende lungamente sulla guerra mossa nel 1898 dagli Stati Uniti alla Spagna, o piuttosto sul risultato della medesima, che fu quello di fondare un colonialismo e avviare un imperialismo americano. Ali sembra che egli esageri l'importanza di quel risultato: né Cuba né Portorico hanno avuto una influenza di rilievo nello sviluppo della politica estera americana: né furono le Filippine (per cui, del resto, egli ricono- sce che gli Stati Uniti non potevano abbandonarle a se stesse) 1 provocare l'intervento americano nell'Estremo Oriente. Questo intervento si iniziò con la dottrina della porta aperta (open door) di Hay: a proposito della quale il Kennan fa l'osservazione interessante che la prima a proporla fu l'Inghilterra, richiedendo il concorso americano, che non fu concesso. Qualcosa di analogo, avrebbe potuto ricordare, era avvenuto tre quarti di secolo indietro per la dottrina di Monroe. Egli ha ragione, tuttavia, di criticare codesta politica americana dell'ode» door per la sua insufficienza e incoerenza. Il Kennan seguita, anche dopo la guerra ispano-americana del 1898, a porre l'accento principale sulla politica mondiale degli Stati Uniti, mentre avrebbe fatto bene a pressare attenzione alle relazioni europee. L'azione di Roosevelt ad Algesiras avrebbe dovuto essere messa in rilievo come il primo accenno di una « coscienza europea » da par¬ tntppqrsdadbaqlfdcetpqspvssssgiegmap i i o a o , a a n a 8 o e a a e ) ò a a . e o r a e o l e e e i ¬ te dell'America, accenno che non ebbe seguito per allora. Ha ragione il Kennan di criticare « gli slogan moralistici » per l'intervento americano nella prima guerra mondiale: ma quando poi lamenta che l'America non abbia approfittato del suo peso, e della sua libertà d'azione, « al fine di giungere al termine delle ostilità con un danno minimo per la futura stabilità del continente », non si accorge del carattere astratto di questo suo postulato. E nell'astratto rimane quando manifesta il dubbio che siano stati i difetti della democrazia americana a essere responsabili degli errori, o deficienza, della politica americana di guerra e di pace. Fatto strano: il Kennan salta quasi a pie pari dalla prima alla seconda guerra mondiale, che è poi sbrigata anch'essa molto bre vementc, arrivando alla conclusione — molto gencric? anch'essa — « che, se avessimo compreso meglio gli clementi della nostra crisi durante la seconda guerra mondiale, saremmo oggi in America più calmi, più uniti e meno irritati gli uni contro gli altri, perché saremmo stati meglio preparati a quello che avvenne dopo il 1945 e meno portati a giudicare questi eventi come la conseguenza della stupidità o della malafede di altri ». Segue un'ultima lezione su « La diplomazia nel mondo moderno », che è sostanzialmente una critica alla mentalità legalistica dell'attuale politica americana. L'articolo in appendice su « L'America e l'avvenire della Russia » prospetta di volo sia la politica da seguire in una eventuale guerra contro la Russia, sia quella per una prosecuzione de « L'attuale stato di guerra non guerreggiata ». Piani politici veri e propri non ce ne socio: in particolare, nulla si dice circa la possibilità e modalità di una trattativa d'insieme. * * Per altra via, non meno, o anzi più, negativo riesce uno studioso professionale americano di storia e di politica, C. Burton Marshall, in The limits of foreign policy, il cui titolo è stato specificato nella traduzione italiana (E.S.I., Napoli): / limiti della diplomazia america na. Specificazione formalmente non corretta, e tuttavia non giù stificata perché sostanzialmente è della politica estera americana che si tratta (errato, in ogni modo, è stato mettere « diplomazia » al posto di « politica estera »). Non mancano osservazioni interessanti sulla tendenza popola re americana a non tener conto della difficoltà di realizzazione di certi obbiettivi massimi né della inevitabile interdipendenza fra America e alleati: ed è giusta la critica alla diplomazia « aperta ». Ma, sono osservazioni, rimangono ai margini della questione fondamentale: i prò blemi dell'oggi, e la via per affrontarli. Ancor meno illuminante per questo rispetto è The american approach to foreign policy di De:, -r Perkins (Harvard University Press,'Cambridge, Massachusetts), che è una apologia vivace, convinta, della politica americana sotto il profilo mora le. Né imperialismo né capitali smo hanno dominato in essa: la sua forza motrice è nel popolo, non in una élite politica o di plomatica: e in confronto alle altre nazioni vi si ritrova un'alta ispirazione morale. Non è il caso di mettersi discutere simili asserzioni, che ogni popolo, di volta in volta; fa per conto suo: dopodiché la vera questione, se una data po litica sia stata buona o cattiva, rimane al punto di prima. Riconosciamo, tuttavia, volentieri che c'è qui una esposizione di fatti — dagli inizi della nazione americana — più abbondante che negli altri libri menzionati pertanto utile per il lettore europeo. Un argomento che si desidererebbe veder trattato di propo sito da studiosi americani, è la influenza, o meno, della politica interna americana su quella estera. Si sarebbe aspettato di trovate una trattazione del genere in H. Bradford Westcrficld, Foreign policy and party politics (Vale University Press: il sottotitolo: Pearl Harbour to Korea indica i limiti cronologici). E' uno studio minutissimo, ma rivolto solo all'aspetto formale del tema, e cioè, il VVcsterficld esamina, anche con dati statistici, il comportamento successivo dei due partiti rispetto alla politica estera del govcr no, riassumendo l'esame in tre tipi, partisanship, bipartmanship, extrapartisanship : termini che nctesPspppncespcccf—s non sembrano aver bisogno di chiarimento, salvo forse l'ultimo, che indica una politica estera governativa appoggiantesi sul partito a cui appartiene il Presidente, ma che al tempo stesso cerca di evitare una opposizione sistematica dell'altro partito. E' interessante osservare, sempre sotto questo rispetto, che nel libro La politica in America di D. W. Brogan (trad. it. edita dal Pozza) — libro ricchissimo di dati, e perciò veramente prezioso, circa il sistema partitico, le macchine organizzative, i congressi nazionali dei partiti, la campagna elettorale, le relazioni fra il Presidente e il Congresso — non si oarli di politica estera, salvo che per l'argomento formale dell'approvazione dei trattati da parte del Senato. Luigi Salvatorelli