Eternamente in tailleur

Eternamente in tailleur Eternamente in tailleur Giunsi al treno in anticipo, Anna mn c'era ancora. Me ne meravigliai. Quantunque la sapessi sempre distratta, affannata e in ritardo, quel mattino la avrei creduta puntuale, date le circostanze. La sera avanti avevo ricevuto un suo biglietto: « Mia Delfina, mi telefonano che la mamma è morta, povera là mia santa. Parto domattina, mi accompagni, vero? Ti aspetto al treno ». E adesso ero io lì che aspettavo lei. Avevo immaginato di trovarla già rincantucciata nel vagone, pallida, tutta disfatta dal dolore: l'amore per la madre era sempre stato per lei come una religione. La vidi poi spuntare sotto la tettoia. Era pallida, certo, nella sua veste nera, ma non aveva dimenticato di darsi il rossetto. Era anche disfatta dal dolore; però un uomo l'accompagnava, un distinto signore magro e brizzolato, ma giovane ancora. Doveva essere l'ultima sua passione) quel chirurgo rinomato, conosciuto in una clinica dove si era ritirata poco tempo prima per una piccola operazione. Vidi che lei alzava su di lui gli occhi teneri e imploranti, mentre lui la salutava correttamente e frettolosamente: doveva avere una maledetta paura di essere visto il famoso chirurgo. Sempre così, Anna- sembrava avere la specialità di innamorarsi di uomini che avevan paura di compromettersi. — Cara, grazie di essere venuta! Sentii le sue braccia intorno al mio collo e il suo viso ardente contro il mio. — Coraggio, Anna! Per un poco ella pianse col fazzoletto sul viso, seduta davanti a me. Il treno si era incamminato ed eravamo sole. Poi parlammo della povera morta e dei ifuoi mali che non lasciavano supporre una fine così improvvisa. ' - — Povera, povera santa! — Ora chiudi gli occhi, — le dissi con dolce autorità, — e vedi di dormire un poco. Chiusi gli occhi anch'io, pensando che in fondo non la conoscevo quasi questa madre di Anna, che era poi la mia matrigna. Anna e io eravamo sorelle per parte di padre. Quando lui si era sposato per la seconda volta, io, già dodicenne, ero stata accolta dalla mia madrina che aveva un. ben avviato laboratorio da sarta, era nubile e intenzionata di allevarmi come una figlia e di lasciarmi tutto, beninteso se mi mostravo laboriosa e degna di continuare la sua opera. Così mi ero estraniata da mio padre, dalla matrigna e da mia sorella. Li vedevo di rado, specie dopo la morte di mio padre, e quando Anna, malamente sposata, era rimasta sola (lui se n'era andato all'estero) con la figlioletta, la piccola Vera. Le poche volte che vedevo la mia matrigna, lei mi prendeva le mani, mi guardava con aria supplichevole, mi diceva con grande dolcezza : — Non giudicare male Anna. Non credere che sia cattiva... E' disgraziata, povera Anna, e forse la colpa è mia, per averla lasciata sposare troppo presto... Se Anna era presente, s'inginocchiava ai piedi della madre, le bagnava il grembo di lacrime, le baciava le mani con passione. — Mamma, che dici mai... La colpa è mia, di tutto. Tu sei il mio angelo, la mia santa... A me quelle scene, allora, parevano esagerate. Dicevo ad Anna, stizzita: — Se vuoi tanto bene a tua madre, perché le dai dei dispiaceri da farla piangere? Lei mi guardava smarrita, con quei suoi occhioni troppo dolci, troppo splendenti nel viso delicato, bianco, un viso nervoso di sensitiva. In realtà c'erano in lei due creature che lottavano senza tregua: una era la buona figliuola che adorava la madre, l'altra era la donna ardente e debole, tanto debole da diventare la facile preda di qualunque uomo capace di darle la menoma illusione d'amore. Forse la madre, conoscendola, aveva creduto di salvarla maritandola giovanissima, ma il marito si era rivelato un farabutto, e l'aveva perduta anche di più. Poi, la madre, stanca di lottare, si era ritirata in campagna portando seco la nipotina, la piccola Vera, e da lontano, chiusa nella sua solitudine, si contentava di pregare e di scrivere i suoi buoni consigli alla figlia, pure immaginando che quelle lettere Anna non le leggeva nemmeno. Infatti subito subito non le leggeva, ma dopo un certe tempo sì, le baciava, le copriva di lacrime, le chiudeva in uno stipo come cose preziose. E ripeteva all'infinito: — Mamma, sei il mio angelo. E' per te che... Capivo quel che voleva dire, quando volgeva verso di me i suoi occhioni velati e come appesantiti di passione, era per sua madre che non aveva fatto uno scandalo quando il conte X l'aveva abbandonata, era per lei che non aveva gettato il vetriolo in faccia a quella canaglia che le aveva portato via Y, era per lei che non era partita con quell'altro che andava in Indocina e non sarebbe tornato mai più, per lei che non aveva commesso quelle follie definitive che conducono all'esilio, o alla Corte d'Assise, o alla perdizione, o alla morte. Aprii gli occhi, vidi che invece di dormire singultava, senza più lacrime. — Chi mi tratterrà, ora che non ho più lei? — Hai tua figlia, hai Vera! — Oh, Vera... Dire che quella avrà già fatto le valigie per venirmi dietro. — Ma come! — esclamai • in-1 dignata. — Guarda un po'... Ti disturba l'idea di aver tua figlia in casa? — Altro che — mi rispose con uno sguardo duro e un sorriso amaro e perfin cinico. Compresi. Vi erano dei periodi in cui Anna viveva onestamente, dando lezioni di musica e di canto (vi era stato un momento in cui sembrava che dovesse diventare una vera artista, una cantante d'opera), ma vi erano altri periodi in cui tutto andava per aria e quella casa non era certo adatta a una giovinetta. — Quanti anni ha? — Sedici. Pensai con un certo turbamento che l'avrei vista subito. Forse ci avrebbe aperta la porta lei stessa. Somigliava alla madre? Era anche lei bella, bionda, ardente, destinata a una vita di disordine e di dolore? Ma la porta era aperta. E Anna si precipitò nella casa come un disperato si getta a capofitto nell'abisso di cui ha tanta paura ed entrò nella stanza da cui veniva odore di fiori e di cera e dove intorno al letto ardevano le candele. — Anna, Anna — dicevo io a lei che, inginocchiata, tutta premuta contro il funebre letto sembrava non potesse nemmeno aprire gli occhi — guarda come dorme quieta la „ povera mamma, come sorride nella pace... Non mi dava retta, come se non mi sentisse nemmeno... Fu allora che qualcuno si alzò da ginocchioni dov'era, le venne vicino, si curvò dolcemente su di lei (e davvéro mi parve un angelo custode) e la sollevò con tenera forza. — Alzati, mamma. — Ah, Vera, sei tu? Ma la più stupefatta ero io: Vera era il mio ritratto preciso, di quando avevo quell'età, alta, sottile, coi capelli neri, il viso bianco, pulito, gli occhi limpidi color nocciola, con uno sguardo che era lo sguardo dell'onestà, della purezza stessa... Mi abbracciò teneramente. — Tu sei la zia Delfina, vero? Quante volte ti ho pensata! Sentii una fitta di rimorso. E io che non mi ero mai occupata di lei! Ora non potevo più levarle gli occhi di dosso. Tanto che prima di partire dissi risolutamente ad Anna: — Vera me la prendo io. Se tu permetti. Se lei vuole. — Oh, per lei è una fortuna — disse Anna con un sorriso umile — e sta pur certa che lo sa. Si rivolse alla figlia: — Vedrai. La zia ha un grande laboratorio. Chissà quanti bei vestiti ti potrai fare! — No — dissi io — noialtre sarte non abbiamo mai tempo di farci dei bei vestiti. Il mio laboratorio poi non è di lusso, io vesto gente modesta, però il lavoro è molto. Non c'è tempo per noi. La mia povera madrina era una specie di monaca. Io, mi vedete, son sempre in tailleur. E anche tu, povera Ve ra, sarai eternamente in tailleur. — A me piace lavorare — disse Vera, serenamente. — Nient'altfo. Carola Prosperi

Persone citate: Carola Prosperi

Luoghi citati: Indocina