I moti di Milano

I moti di Milano » K= A Jg 9 A jg I DOPO I moti di Milano Ancora molti anni dopo, il ricordo dei moti di Milano del 6-o maggio 1898 suscitava nell'animo della gente d'ordine reminiscenze oscure e paurose: come d'una violenta esplosione rivoluzionaria, e quasi di una novella Continuile, alla quale solo il pugno di ferro del generale Bava-Bcccaris avesse impedito di sfrenarsi, sovvertitrice. La realtà fu molto più modesta, so pur ricca di conseguenze politiche di notevole importanza. La causa prossima delle agitazioni popolari che, nella primavera del '98, si seguirono in varie parti d'Italia, culminando nei moti di Milano, fu il rincaro del prezzo del pane, dovuto al cattivo raccolto dell'anno precedente e alla guerra tra Stati Uniti e Spagna. Ma esse ebbero la loro prima radice nella tensione politico-sreialc determinatasi in quegli anni per effetto delle sconfitte d'Africa, della grave crisi economica, delle nostalgie e velleità autoritarie di alcuni gruppi e uomini di destra e del vigoroso affermarsi del movimento socialista. Di fronte a questo, la parte politica al potere si era irrigidita in una posizione di resistenza e di difesa repressiva. Stroncati con gli stati d'assedio e i tribunali militari i moti della Sicilia e della Lunigiana del 1893, Crispi aveva infierito contro il socialismo con duri provvedimenti polizieschi. E il suo successore, Rudinì, nonostante alcuni modesti conati di riforme, non aveva mutato sostanzialmente rotta. Ne l'uno ne l'altro si erano resi conto che, alle radici del socialismo, stava tra l'altro un profondo malessere ccono- mico-sociale che esigeva prontiI e positivi rimedi; e che i metodi repressivi, nonché risolvere il problema, lo esasperavano, specie in quelle zone dove, come nel Mezzogiorno, la miseria produceva essa sola (scriveva Giustino Fortunato) « quell'afa che annunzia e produce gli uragani ». In tale atmosfera — inasprita dallo spettro della carestia e da episodi come la morte in duello, il 6 marzo, del leader radicale Cavallotti — maturarono, preceduti dalle agitazioni della Sicilia, del Mezzogiorno, delle Marche, della Romagna, della Toscana (dove si ebbero i consueti episodi di municipi o di magazzini di granaglie assaltati, di esattorie o di casotti daziari incendiati, di conflitti con la forza pubblica), i moti di Milano. Essi s'iniziarono il 6 maggio, quando la notizia della morte a Pavia, in un conflitto con la polizìa, d'uno studente universitario, figlio del deputato radicale milanese Giuseppe Mussi, e alcuni incidenti avvenuti a mezzodì a Ponte Scvcso e, qualche ora dopo, davanti a una caserma di via Napo Torriani, dove cadde ucciso un operaio, provocarono i primi tumulti popolari. Le autorità ebbero l'impressione che si trattasse d'un vero e proprio moto insurrezionale, preparato di lunga mano. Ma, di fatto, in quella folla senza capi e senza armi, con molte donne e ragazzi, che mosse d'improvviso, per impulso spontaneo, a dissclciare strade e a costruire barricate a Porta Venezia, a Porta Ticinese, a Porta Garibaldi, non c'era una volontà rivoluzionaria. C'era piuttosto — insieme a un sentimento di rivolta contro il rincaro del pane, l'inerzia del governo, 1 duri metodi repressivi delle autorità e alla solita confusa aspettazione di radicali mutamenti, — uno spirito istintivamente « barricardiero », che traeva in parte alimento dai ricordi del Quarantotto, ravvivati dalla recente celebrazione del cinquantenario della vittoriosa battaglia contro il Radctzky. Per se, il moto popolare avreb be prodotto più scompiglio < paura che danno: com'è, del resto, attcstato dal fatto che la forza pubblica ebbe, in quelle quattro giornate, due soli morti (ed entrambi non colpiti dai dimostranti). A mutarlo ih sanguinosa tragedia (ottanta morti e cinquecento leriti, secondo i dati ufficiali, giudicati inferiori al vero) furono 1 timori e gli eccessi delle autorità civili e militari. Il generale comandante il Corpo d'armata, il Bava-Beccaris', s'indusse addirittura, l'8 maggio, a impiegare i cannoni. E il cannone entrò in azione anche il giorno successivo : nell'assalto al convento dei cappuccini di Porta iVlonfortc, dove uno stuolo di mendicanti in attesa della consueta elemosina venne scambiato per un gruppo di rivoltosi e assalito da un corpo di truppe, che penetrò per una breccia nell'edificio, arrestando insieme con i mendicanti gli stessi frati. Episodio grottesco, ma significativo. Le autorità avevano perso la testa. La convulsa reazione del governo (debole e, perciò stesso, portato a eccedere nel rigore) e la paura delle consorterie moderate fecero il resto. Il Rudinì credette che si fosse alla vigilia di una rivoluzione e che da Milano l'incendio si potesse estendere a tutta la penisola. Fu proclamato lo stato d'assedio, oltreché a Milano, a Firenze e a Napoli, dove pure si eran avuti tumulti popolari o dimostrazioni studentesche. E, — mentre si diffondeva (come ricorda il Croce) « la terrificante leggenda dell'abisso aperto, della rovina cui si era miracolosamente scampati, del pericolo cui si era trovata esposta l'esistenza dello Stato e quasi dell'intera civiltà », — le carceri venivano riempite di centinaia di uomini dei partiti di opposizione (socialisti come Turati, Bissolati, Costa, Morgati, Bcrtcsi, Anna Kulisciof; radicali come il Romussi, direttore del « Secolo »; repubblicani come il De Andreis), mentre altri cercavano scampo oltre confine. Né la reazione colpi i soli partiti di sinistra: vi furono coinvolti anche i cattolici, a cominciare dal battagliero don Albcrtario. Seguirono poi i processi davanti ai tribunali militari, che condannarono gli imputati a pene esorbitanti (il solo tribunale di Milano pronunziò 668 sentenze di candanna e distribuì 1500 anni di reclusione o di detenzione); lo scioglimento di centinaia di associazioni e di circoli, anche di studio, e la soppressione di centodieci fogli socialisti, repubblicani e cattolici. E, in .un secondo tempo, le leggi intese ad aumentare le facoltà discrezionali del potere esecutivo e restringere le libertà di associazione, di riunione e di stampa proposte dal generale Pelloux, succeduto il 29 giugno al Rudinì. Ma la crisi apertasi nella primavera del 1898 — e che ebbe come suo ultimo, tragico corollario il regicidio di Monza — fini con l'avere, nell'evoluzione politica del paese,- conscgucn zc affatto diverse da quelle vagheggiate dalla parte conservatrice. Spinse i liberali degni del nome, con alla testa Giolitti e Zanardelli, a separarsi da uomini e da gruppi che, di fronte alle necessità e alle nuove aspi razioni dei ceti popolari c ai problemi della trasformazione in senso democratico del paese, | non avevano saputo escogitare altri metodi che gli stati d'assedio e la restrizione delle pub-1 bliche libertà; e a prendere, nei confronti del socialismo, un più aperto e costruttivo atteggia-1 mento. E dette, insieme, l'avvio] a un'evoluzione in senso liberale del socialismo stesso: cui gli avvenimenti del '98 insegnarono (scrisse Turati) « la necessità imprescindibile della libertà » c « la tattica accorta delle alleanze » con le altre forze democratiche. Due anni dopo i moti di Milano, le elezioni del giugno 1900 segnavano la sconfitta della politica conservatrice e, dopo la breve parentesi Saracco, portavano al potere, insieme a Zanardelli, Giolitti. Il periodo dei conati autoritari era chiuso; si iniziava quello del liberalismo costruttivo e del socialismo riformista. Solo quando la lezione del '98 fu dimenticata, e tra i liberali tornarono a predominare le paure conservatrici e tra i socialisti le velleità massimalistiche, le correnti, reazionarie poterono nuovamente affermarsi. E si ebbe il fascismo. Paolo Senni