I comunisti italiani messi sotto accusa per non aver saputo fare la rivoluzione

I comunisti italiani messi sotto accusa per non aver saputo fare la rivoluzione — COME FU COSTITUITO IL COMINFORM I comunisti italiani messi sotto accusa per non aver saputo fare la rivoluzione Nel maggio del '47 il p.c.i. si era lasciato estromettere dal governo senza reagire; l'on. Longo si difende spiegando che un'insurrezione avrebbe gettato l'Italia in una guerra civile peggiore di quella greca - Togliatti giudicava gli aiuti americani indispensabili al Paese, ma il partito doveva promettere ai sovietici un'immediata campagna a fondo contro il Piano Marshall - I delegati russi e satelliti biasimano i dirigenti italiani E' questa la terza puntata, delle rivelazioni di Eugenio Reale sulla creazione del Cominform. Nei primi due articoli l'autore ha raccontato i preliminari dolla conferenza secreta, che dal 22 al 27 settembre 1817 riunì, nel villaggio polacco di Szklarska Poreba i rappresentanti dei partiti comunisti russo, italiano, francese c degli stati satelliti. Ha presentato le figure dei maggiori delegati, quasi tutti scomparsi tragicamente; ha esposto l'inizio dei lavori e le dure critiche lanciate dall'as¬ iitiiiiitiiiiiiiiii«]iiiiiiii;iitiiiiiiiitiiciiiiiiJJiiiii semblea contro i comunisti di Francia. Nella seconda giornata fu 11 partito comunista italiano a trovarsi sul banco degli Imputati: il senatore Reale descrive la seduta utilizzando il suo diario e le relazioni ufficiali, llnora note soltanto a pochissimi alti dirigenti comunisti Per analogia con la situazione .politica italiana, si capiva subito che Longo ed io eravamo destinati a sedere tra poco sullo stesso duro iirtitiiililfiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!iTiiiiiiiiiriiiiiiiiiiii scanno degli imputati. Nel settembre 191/7 la situazione italiana si andava svolgendo rapidamente verso la disfatta politica dei comunisti* Il viaggio del nostro segretario del partilo a Belgrado (ero stato ìo, nel ncv.mbre 1946, l'organizzatore segreto dell'inopinato incontro tra Togliatti e Tito che tanto scalpore fece nell'opinione pubblica mondiale) non aveva dato i risultati sperati. Nel gennaio del 191,7 vi era stata la scissione socialista, colpo gravissimo inferto alla polir tica di Togliatti che poteva disporre ormai a suo piacimento solo di quella parte delle forze socialiste che si era raccolta attorno a Nenni. Nel maggio, improvvisamente, giovandosi della nuova situazione che si era creata, De Gasperi aveva dato le dimissioni ed aveva escluso i comunisti dal nuovo governo. Se Thorez aveva tutte le ragioni di piangere, Togliatti non aveva nessuna ragione per ridere. Il suo astro, fatalmente, si avviava anch'esso al tramonto. Vero è che Cervenlcov e gli altri capi comunisti che stavano programmaticamente realizzando nei loro paesi la piti spietata delle dittature non avevano molto di che vantarsi. Al loro posto, anche Togliatti, anche Longo, anche Secchia, e persino Scoccinmrro o D'Onofrio avrebbero saputo comportarsi nello stesso modo. Non era giusto trattarli — e lo furono duramente — come dei servi maldestri. Comunque sia, la conferenza si andava orientando verso la critica più severa e spietata dell'opportunismo, del legalitarismo, dei parlamentarismo dei comunisti francesi e italiani. Quello che i sovietici e gli altri delegati dei partiti dell'Europa orientale non riuscivano a vedere era che dei comunisti scaltriti e senza scrupoli come Thorez e Togliatti non avessero saputo prescindere dalla situazione parlamentare e scatenare l'insurrezione. I due maggiori problemi che erano all'ordine del giorno della politica italiana erano la ratifica del trattato di pace e l'accettazione degli aiuti americani del Piano Marshall. Togliatti, che faceva di tutto per apparire in ogni occasione come ligio agli in- teressi del proprio paese, voleva, che la prima questione fosse risulta in modo da poter sfruttare propagandisticamente il mito di una pace ottenuta, grazie ai comunisti, alle migliori condizioni possibili. E' in questo. senso che io mi ero sforzato di operare, alla Conferenza di Parigi, sui delegati jugoslavi che su molte questioni, tra le altre quella di Trieste, erano assolutamente intrattabili: è sempre in questo senso che io, per suggerimento dello stesso Togliatti, avevo cercato di moderare l'intransigenza di Molotov e la durezza di Vishinski. Quanto alla seconda questione, Togliatti vedeva personalmente di buon occhio gli aiuti rappresentati dal Piano Marshall ed era convinto che fossero veramente indispensabili a sollevare le condizioni della classe lavoratrice italiana: se più tardi si regolò in modo contrario alle proprie convinzioni e, buttando in mare senza pensarci due volte i veri interessi della classe lavoratrice italiana, fece alla Camera dei Deputati uno dei discorsi più spudorati che registri la storia parlamentare di tutti i paesi (10 luglio 19ì,8) e, contro quello che egli stesso pensava, affermò che gli aiuti americani sarebbero stati dannosi all'economia italiana, egli agì in tal modo solo ed unicamente per supina acquiescenza agli ordini del padrone. Il discorso di Longo, amia memoria, non fu diverso da quello di Duclos, freddo, arido, forzatamente, e ostentatamente ottimista. Come è nel temperamento, nei particolari gusti ed interessi di Longo, egli indugiò sulle benemerenze dei comunisti nella guerra partigiana, sulla preparazione militare di speciali squadre apprestate dal partito per la famosa ora X, sulla quantità e dislocazione delle riserve di armi ben lubrificate e pronte per la prossima, insurrezione. La lunga e monotona elencazione delle agitazioni sindacali promosse, per istigazione del partito, dalla Confederazione del Lavoro, le abbondanti statistiche di scioperi spesso inventati di sana pianta, l'esaltazione di episodi di lotta gonfiati ed esagerati nonché di smaglianti vittorie mai riportate non valsero a distogliere l'uditorio dal fatto principale che la rivoluzione non si era fatta, che i comunisti in Italia non avevano conquistato il potere e si erano fatti cacciare anch'essi dal governo senza fiatare. Fu a questo punto che Longo, seguendo fedelmente le disposizioni impartiteci da Togliatti, inserì l'esempio della Grecia e il pericolo per l'Italia di fare la stessa fine, di diventare anch'essa campo di battaglia delle opposte parti (con il conseguente inevitabile intervento americano), qualora i comunisti avessero fatto o volessero ancora fare una differente politica, abbandonando la legalità ed il metodo parlamentare per porsi risolutamente sul terreno dell'insurrezione. Quando De Gasperi li cacciò dal governo, i comunisti avrebbero potuto rispondere con lo sciopero generale e I con una serie di agitazioni \ e sommosse in tutto il pae- j se. Ma che sarebbe avvenutot Nella migliore delle ipo- I tesi lo sciopero generale a carattere rivoluzionario sarebbe riuscito pienamente nel Nord e avrebbe paralizzato la vita della nazione. In Toscana e nell'Emilia si sarebbe potuto arrivare persino alla presa del potere. Ma nelle altre regioni, nel Mezzogiorno, nella stessa Roma f La prospettiva era quella della Grecia, con un governo legale che avrebbe chiesto l'aiuto degli americani e una guerra sul tipo di quella partigiana che avrebbe insanguinato per lungo tempo il paese, lì partito comunista non si era sentito di prendere questa strada, ch'era la strada dell'avventura e che avrebbe potuto portare allo schiacciamento del movimento ope-' raio, alla messa fuori legge del partito e delle organizzazioni ad esso aderenti. L'uditorio non era troppo convinto e dava segni manifesti di insoddisfazione. Longo lo avvertì e abbandonò questo scabroso argomento per tornare a parlare dei grandi successi del partito, della sua crescente popolarità, dei risultati veramente brillanti che la politica di moderazione dei comunisti continuava ad avere in tutti gli strati popolari. Nell'ultima parte del suo intervento, Longo affrontò la spinosa questione del Piano Marshall, unendo la sua voce al coro di quelli che lo avevano condannato come un'illecita intromissione degli americani nelle faccende interne nell'Europa. Egli promise che il partito avrebbe organizzato una grande campagna contro di esso, spiegando al popolo come niente o poco di buono potesse venire al pae¬ se da un aiuto dato a quelle condizioni e con quegli scopi. L'Italia, è vero, aveva bisogno di essere aiutata poiché la sua economia era uscita stremata dalla guerra e tardava a riprendersi, il suo ayparato industriale era andato in gran parte distrutto e doveva essere rifatto, gli aiuti dell' Vhrra erano ormai finiti. Ma di questo nuovo, più sostanziale e meglio organizzato aiuto, che non poteva venire se non dall'America e che la sola America, del resto, era pronta a dare, l'Italia aveva bisogno a determinate condizioni, senza diventare ■"assalta di chi glielo offriva, senza correre pericolo per la sua indipendenza. Questa necessità ed urgenza degli aiuti americani, che Longo non seppe o non volle nascondere pur insistendo sulle garanzie che si sarebbero dovute chiedere ai donatori perché l'accettazione di tali aiuti non significasse l'adesione a una determinata politica o, peggio ancora, l'entrata dell'Italia nel sistema di alleanza anglo-americano, questo ammettere, sia pur timido e circospetto, che gli aiuti americani potessero essere accettati a < determinate condizioni », 7io?i piacque alla maggioranza dei presenti. Essi manifestarono visibilmente, con smorfie o con segni del capo, il loro disappunto. La verità è che Longo aveva dovuto arrampicarsi sugli specchi per dire e non dire, per esporre ai convenuti ciò che Togliatti gli aveva raccomandato di far sapere a ogni costo, e contemporaneamente per non dispiacere ai padroni che certe cose non avrebbero voluto sentirle. Egli se la cavò alla men peggio; ma il contenuto del suo intervento non fu tale, nel complesso, da far dimenticare — lo ripeto ancora una volta — che i comunisti italiani non avevano preso il potere e si erano fatti estromettere dal governo senza troppe difficoltà. Ben diversi, sotto questo rispetto, gli interventi del rumeno G. Dej e del ceco Slanski. Il rappresentante del partito rumeno espose con molta chiarezza la situazione del suo paese caratterizzata anche lì dalla liquidazione ormai in corso del movimento contadino di Maniu, dei liberali e degli altri partiti con i quali i comunisti collaboravano ancora, ni governo. Prese saldamente nelle loro mani le leve del comando, i comunisti, servendosi soprattutto di uomini a loro devoti come il vecchio Groza, avevano fatto piazza pulita dei loro oppositori e si accingevano a dare ai loro alleati il colpo finale. Anche qui, come nelle altre repubbliche popolari, l'operazione si compiva in tre tempi: collaborazione con gli altri partiti, subito dopo la liberazione e allorché i comunisti erano minoranza; assorbimento di questi partiti o, secondo i casi, estromissione dal governo e lotta aperta contro di essi: tutto il potere ai comunisti e messa fuori legge di tutti gli altri partiti ed organizzazioni politiche con conseguente campagna diffamatoria, complotti inesistenti, accuse di tradimento. Eugenio Reale Tutti i diritti di pubblicarlo-, ne per l'Italia sono riservati a « La Stampa » ed a « Il Messaggero ». La riproduzione per intero o in parte è assolutamente vietata. All'editore A. Mondadori è riservata la successiva pubblicazione in volume.