Quando vivremo mille anni di Paolo Monelli

Quando vivremo mille anniQuando vivremo mille anni Non mi meraviglierei che dalla tragedia di Baggio, presso Milano nascesse una canzone popolare. Non una di quelle, Dio ne liberi, che concorrono ai vari festival canori, con parole azzeccate alla peggio, senz'arte né sentimento, per andare d'accordo con il ritmo ballabile già creato dal musico. Ma le parole delle canzoni popolari nascono prima di tutto come poesia, il motivo viene dopo ed è soltanto commento e interpretazione melodica; ed è poesia più o meno rozza ed ingenua, ma fvdclc alle forme tradizionali del veri' e della rima. (Se poi saltano fuori i professori a dire che quei versi spesso non tornano non dategli retta, hanno torto, i versi della poesia popolare tornano sempre, solo che il popolo li compone come gli antichi, secondo la quantità e non secondo il numero delle sillabe; per cui per esempio dattilo, di tre sillabe, vale spondeo di due; cosi nella canzone degli alpini del Montenero, composta come ho già avuto occasione di dire da un semplice soldato senza ombra di cultura o di, reminiscenze letterarie, il primo verso « spunta l'alba del sedici giugno », fatto di uno spondeo, due dattili ed uno spondeo — dicci sillabe — ha lo stesso valore metrico del primo verso della seconda strofe « Monte Nero, Monte Nero », quattro spondei, otto sillabe, c del secondo verso « traditor della vita mia », fatto di uno spondeo, un dattilo e due spondei, nove sillabe). La drammatica morte degli otto di Baggio offre rutti gli ingredienti necessari per una cantata patetica; e si giunge al finale doloroso partendo dall'inizio spensierato ove si narra comò otto amici, otto colleghi della stessa professione, hanno partecipato ad un gaio banchetto dnrante il quale hanno strippato-e bevuto a volontà, e brindato alla salute gli uni degli altri, buona salute e lunga vita e un tranquillo, avvenire; e quando lasciano l'osteria per inaugurare l'utilitaria comprata nuova da uno di essi (utilitaria multipla, perché deve servire a portare a spasso Ja numerosa famiglia, i molti amici) si sentono come partissero per qualche terra d'avventura, sì che l'oste e l'ostessa trovano naturale salutarli dalla soglia come si fa per chi parte col piroscafo o col treno, sventolando i fazzoletti, che nel caso particolare sono tovaglioli. E gli otto stipati alla meglio dentro la scatoletta di metallo, e son tutti un poco corpulenti, intonano un canto profetico, « Volare, oh oh, volare, oh oh», salire nel ciclo blu, salire nel cielo e non discenderne mai più. Certamente il poeta popolare, con una delicatezza di cui non sarebbe capace un paroliere, troverebbe il modo di ricordare, con un senso amaro e tragico della coincidenza, e nello stesso tempo ironico, che gli otto morti d'un colpo nella bara di metallo eran tutti di loro mestiere guardiani cimiteriali, come hanno scritto i giornali con goffo e inutile eufemismo invece di dire becchini; becchini che hanno tanta familiarità con la morte che si pensa che ne vadano immuni, e certo essi la considerano lontana favola nei .propri riguardi; becchini che hanno una concezione filosofica e savia della vanità e della labilità di tutte le cose; come quelli che sotto gli occhi de) malinconico principe Amleto scavano la fossa per Ofelia e alternano acuti ragionamenti sulla sorte dei mortali a canzoni d'amore; e sono orgogliosi del loro mestiere perché, come dice uno di essi, non ci sono gentiluomini così antichi come i giardinieri gli affossatori e i becchini, che continuano la professione di Adamo, il primo gentiluomo al mondo; e costruiscono più solido che i muratori e gli architetti perche le loro case durano fino al giorno del giudizio. Ed un'ultima strofe aggiungerebbe il poeta popolare a mo' di morale; ammonendo gli ascoltatori che tanto più vicina è la morte quanto più è sentita lontana, tanto più frequente ed in agguato quanto più si moltiplicano 1 ritrovati destinati a renderci la vita più grata. Perché davvero, se consideriamo il nostro vertiginoso progresso tecnico, dopo averlo sfrondato di tutte le esaltazioni, dobbiamo concludere che la sua qualità più vera è quella di aver creato più numerosi più frettolosi più imminenti modi di morte. E' certo che una trentina di anni fa, si fossero trovati otto amici in una situazione analoga a quella degli infelici compari di Baggio, allegro simposio e canti e partenza rutti insieme su una carrozza, avrebbero avuto una sorte ben diversa; si sarebbero magari ribaltati con la carrozza. Poteva saltare fuori un morto, con assai maggiore probabilità soltanto qualche contuso, un braccio rotto, una storta; ma perché muoiano d'un colpo tutte le persone sti¬ pate in una carrozza bisogna immaginare un caso unico, apocalittico, per esempio che un ponte gettato sopra un abisso rovini proprio nel momento che vi passa sopra la comitiva; che è il soggetto di un lugubre fado che sentii cantare anni fa a Lisbona alla ccrvejaria Luso dalla bella cantatrice Maria Loureiro, la storia di un'intiera famiglia che si avvia giuliva ad un matrimonio, ma il ponte rovin? sotto il peso della comitiva, precipitami i nell'abisso e muoiono l'uno sull'altro gli sposi i testimoni i genitori gli zìi i bambini e la vecchia nonna, nessuno si salva. Ma oggi non c'è bisogno di immaginare così rara congiuntura per la strage di tanta gente. Le cronache contemporanee sono piene di casi di famiglie reduci da una gita domenicale con l'utilitaria comperata a rate, guidata dal capo di famiglia che s'era messo con tanto orgoglio al volante la mattina godendosi le occhiate invidiose dei vicini; che si sfascia contro un'altra macchina fuori mano, o balz'a fuori di strada, o si fracassa contro un albero; e in un attimo tutta la famigliola è distrutta, resta tutt'al più incolume la creatura più piccola, stretta fra le braccia della servetta, uccisa anche questa. La morte o almeno l'incidente sanguinoso, la ferita grave, la mutilazione, sono l'eventualità sempre più probabile di una scampagnata, di una gita festiva, di una escursione in torpedone di scolaretti, di sportivi, di turisti; basta un attimo di distrazione del guidatore, un guasto ai freni, uno scoppio di gomme, l'imprudenza di un pedone, meno ancora, un cane che sbuca improvviso da una siepe, una macchia d'olio sull'asfalto. Vivere pericolosamente. Chissà che cosa credeva dire di eroico il dittatore imponendo questo motto agli italiani. Ma oggi viviamo tutti pericolosamente, l'infante e la nonnetta non esclusi, movendoci a piedi, in moto, in auto, in omnibus, in ascensore, in teleferica; e fra le pareti domestiche, dimenticando aperta la chiavetta di un gas sempre più inodore, maneggiando congegni elettrici, stufette e tostapane e scalda-fcrrida-stiro, che possono da un momento all'altro creare un corto circuito e appiccare il fuoco all'edificio, come è accaduto di recente a Nuova York, e non molto tempo fa a Roma in uno stabilimento cinematografico. Proclamiamo che vogliamo vivere in pace, che basta con le guerre, queste guerre che continuiamo a descrivere come mietitrici di giovani vite; e non ci siamo ancora accorti che siamo tutti soldati in una guerra di ogni giorno che uccide dodicimila persone l'anno nella Penisola, saranno centoventimila in dicci anni se si arresta l'aumento annuale di questi casi, treccntoscssantamila nel corso di una generazione. E' sempre più appesa ad un filo la vita di chi si butta per piste di sci rese sempre più veloci, gareggia con un motoscafo da corsa,' lancia tra la folla la motoretta, proiettile su un campo di battaglia sempre più popolato, guidato da uno spensierato o un incoscien te votato al rischio, senza ren dersenc conto, come il kamika ze giapponese. L'antico adagio Si vis pacem para bellum. indù ce alcune nazioni a moltiplicare gli esperimenti con le bombe atomiche; e forse non hanno tutti i torti, la prova ripetuta che esistono o si perfezionano armi così micidiali dà di una futura guerra un'immagine così orrenda che nessuno oserà più scatenarla; ma intanto non sap piamo ancora se e come, come parecchi scienziati affermano, il ripetersi di quegli esperimenti porti ad una mortale contami nazione dell'atmosfera. Ci potrebbe, è vero, essere un corrispettivo; lo stesso fenomeno di un frettoloso progresso scientifico in un altro campo ha reso pressoché innocue malattie che uccidevano fino a poco tempo fa, mena vittoriosa lotta contro batteri e spore, ci prò mette già ora una vita più lun ga, una vecchiaia ritardata di decenni Ma stanno ancora in frenetica gara con queste con quistc quelle dei creatori di macchine sempre più veloci, di missili che sfuggono all'orbita prefissata; e degli inventori di diporti e di gare sempre più perniciose. L'unica speranza per questa umanità suicida è che la medicina progredisca oltre ogni previsione, riuscendo fra breve a debellare la malattia e la vecchiaia in riiodo definitivo, assicurando a tutti, se non l'immortalità, una lunghissima vita diciamo di mille anni, in pienezza di forze fisiche e morali. E' probabile che quel giorno ci rimetteremo ad andar tutti piedi, viaggeremo al trotterello di cavalli tranquilli, o con savi convogli che non passino i sessanta; ci terremo lontani dai diporti violenti, dalle avventure temerarie; chi vorrà esporsi al rischio di dover rinunziare ad un esperimento mai toccato in sorte à nessuno, di moltiplicare di quindici o venti volte il numero dei nostri giorni? Chi accetterebbe più di partecipare ad una guerra, di tentare viaggi interplanetari, di affidarsi ad un pericolo di ogni attimo sapendo che se le cose gli vanno male non ci rimette soltanto qualche lustro di vita, ma ottocento o novecento anni, un'eternità, almeno finché l'umanità non sarà liquefatta alla nuova misura? Gran bel tempo sarà quello, che beato consorzio umano. Tutti pacifici, tutti tranquilli e cautelosi, tutti preoccupati soltanto di non uscire per alcuna ragione dalla bambagia e dallo scatolino. Paolo Monelli

Persone citate: Baggio, Maria Loureiro

Luoghi citati: Lisbona, Milano, Montenero, Nuova York, Roma