Dante e Firenze di Luigi Salvatorelli

Dante e Firenze Dante e Firenze L'edizione italiana della « Scoria di Firenze » del Davidsohn, pubblicata dal Sansoni, che ho avuto già il piacere di presentare ai lettori de « La Stampa », è arrivata felicemente al suo terzo volume: sempre nella stessa bella veste tipografica, con ampio corredo di illustrazioni storico-artistiche. Non posso fare a meno di notare, fra queste, la serie di magnifici stemmi della Parte guelfa, del Tribunale di Mercatanzia, delle Arti della Lana, di Calimala, dei Cambiatori, e così via. L'ultimo nominato sembra l'opera di un Mondrian marmorario anziché pittore. Questo terzo volume italiano corrisponde al secondo, Parte seconda, dell'opera originale : « Guelfi e Ghibellini. L'egemonia guelfa e la vittoria del popolo». Movendo dall'anno 1:68 (sconfitta e morte di Corradino di Svevia), esso giunge fino al 1*05, cioè alla caduta di Giano della Bella e agli avvenimenti immediatamente successivi ad essa : principale, il sostanzialmente fallito tentativo di riscossa dei Magnati contro gli Or" icnti di giustizia. Siamo, dunque, nella Firenze dei tempi di Dante, o, se vogliamo esser più precisi, della gioventù di Dante. Questi nel noj aveva trent'anni; e incominciò la sua carriera politica — come si può leggere nella ottima Vita di Dante di Umberto Cosmo — proprio alla fine del 1295. Dal primo novembre 1295 al 30 aprile 1296 egli fece parte del Consiglio speciale del Capitano del Popolo. Nella storia del Davidsohn codesta sua carriera comparirà solo al volume seguente; ma lo storico di Firenze non ha potuto fare a meno di nominarlo fin d'adesso, e proprio a chiusura del presente volume. Dopò aver detto delle grandi intraprese architettoniche alla fine del secolo: Santa Croce, Santa Maria del Fiore, il Palazzo dei Priori, o della Signoria, il Davidsohn — in un linguaggio vibrato e commosso non abituale in lui — aggiunge: «Insieme al Duomo meraviglioso c alla turrita rocca del popolo, l'opera più grandiosa non era sorta ancora. Essa era però già concepita e stava assumendo la sua forma nella mente del suo autore. Non nella pietra né nel marmo doveva essa trovare la sua espressione, ma nella forma più duratura in cui si incarna il pensiero; e così vivrà finché risuqnerà pel mondo il dolce idioma italiano e finché accenti poetici di secolare vigore faranno vibrare i cuori ». * * Il Davidsohn, dunque, storico di tradizione erudita, ha avuto chiara coscienza della « centralità » di Dante nella storia di Firenze. Pure, colui che fino al 1295 era stato soltanto uno dei poeti del dolce stil novo, solo per pochi anni successivi (neppure per un decennio, a volerci anche comprendere le sue relazioni con Arrigo VII, mosso contro Firenze) ebbe qualche parte nella vita politica del grande Comune arrivato al suo apogeo; e mai in posizione centrale. Consiglieri, Priori, ambasciatori, banditi e fuorusciti come lui Firenze ne ha avuti, prima, allora, e dopo, a centinaia. Una gran parte di questi suoi « colleghi » hanno contato ben più di lui nelle vicende politiche di Firenze: in quella che taluni storiografi francesi di oggi chiamano, con disprezzo, histoire événementielle (come se ci fosse una qualche storia senza avvenimenti).'' Quéi « colleghi » di Dante, per un momento più illustri di lui, oggi sono dimenticati, salvo dagli specialisti: se pure a questi ne è arrivato il nome. Dante, invece, sfolgora e giganteggia: e nessuno si meraviglia del binomio paritario « Dante e Firenze ». Firenze nella storia umana sarebbe tutt'altra, e ben minore, se da lei non fosse sor' ia Divina Cmmnedia. Veramente, bisogna ripetere: « iYluor Giove e l'inno del poeta resta ». Poeta, però, non è il termine adeguato, per Dante: bisogna dire poeta-vate, profeta. Egli si senti in grado di collocarsi da pari a pari — o anzi da supcriore a inferiore — di fronte a Firenze sua patria: e non solo di fronte a Firenze, ma a tutta l'Italia del tempo, di fronte all'imperatore, di fronte al Papa. Se Dante si scaglia contro Firenze, la città sua, e invita l'imperatore a sottometterla, questo è certamente contro i doveri del cittadino normale; ma è altrettanto certamente fra i diritti del profeta: Geremia insegni. E se Dante cattolico, Dante che ri corda ai cristiani « il Pastor del la Chiesa che vi guida », giudica e condanna questo o quel pontefice, e fa proclamare da San Pietro vacante il seggio papale tenuto da papa Bonifacio, nessuno se ne scandòlezzò allora, in quei tempi di verace fede. E solo quando la fede si accartoccia e si scolora come stoffa con sunta che a qualche chierico può venire in mente di trattare come insignificanti licenze poetiche questi giudizi di Dante. Nessun dubbio che le espe rienze di Dante nella Firenze d:he -ggi sacgtsdceGtpBpdedeDzfine secolo abbiano avuto una influenza decisiva per la sua vocazione di poeta-profeta, giudice della patria. A riandarle oggi, noi posteri di più secoli, con la scorta del preciso e minuto cronistorico Davidsohn, esse possono sembrare causa ben piccola per così grande effetto. Può persino, per un momento, affac* ciarsi il dubbio se Dante non le abbia esagerate e deformate con la lente del risentimento personale. Ma appare subito l'assurdo di una simile interpretazione: poesia cosi splendida, tono spirituale così alto, non possono provenire da ispirazione così meschina. La spiegazione ? tutt'altra. Quei fatti di cronaca — una cronaca che non era solo fiorentina o romana, ma generalmente italiana ed europea del tempo — sono stati visti da Dante nella luce di una coscienza morale sempre più ampia e alta: la stessa coscienza che ispira la concezione centrale della Divina Commedia. Non è da credere che essa coscienza, al momento di quegli avvenimenti fiorentini e papali, fosse già in lui completamente maturata. Vi era certo in germe: dovette maturare rapidamente nei primi anni dell'esilio, subito dopo il suo distacco dalla « compagnia malvagia e scempia » dei fuorusciti compagni. Già al sesto canto àcWlnferno (si ricordi l'ipotesi, sostenuta con particolare ingegno dal compianto Giovanni Ferretti, dei primi sette canti fiorentini) Dante fa proclamare da Ciacco che in Firenze superbia, invidia e avarizia dominano i cuori. Ecco un giudizio di cui almeno lo spunto dovette sorgere in lui prima dell'esilio; come prima dell'esilio dovette germinare nel suo intimo la trasfigurazione nostalgica della Firenze di Cacciaguida : « Firenze dentro della cerchia antica... in pace, sobria e pudica ». La trasposizione sul piano morale delle esperienze politiche dovette essere di antica data nello spirito di Dante. O, forse, non ci fu mai trasposizione: lo spirito di Dante era così fatto, che sempre egli vide al di là del fatto politico la questione morale. Certo è che nell'immensa scena della Divina Co?rmiedia, tutta riempita di personaggi politici e di fatti politici, i termini, i giudizi, le categorie della politica figurano ben scarsamente, mentre sono sempre presenti i termini, i giudizi, le categorie della morale. Di una morale in cui gli è maestro il pagano Virgilio, cioè la coscienza naturale umana: ed in nome di questa Dante giudica ecclesiastici e laici, re e papi, il regime di Firenze come la Curia romana. Dante, se per incredibile caso gli capitasse di leggere certi giornalisti « laici » nostrani, i quali credono di difendere l'autonomia dello Stato di fronte alla Chiesa attribuendo al primo la categoria dell'Utile, e riserbando alla seconda quella del Morale, rimarrebbe trasecolato: lui che aveva fatto dire a Marco Lombardo che all'umanità «convenne rege aver che discernesse Della vera città almen la torre »; e ricordare « i due soli» di «Roma, che il buon mondo feo », i quali « l'una e l'altri strada Facean vedere, e del mondo e di Deo ». Quando Dante giunge al Paradiso Terrestre — cioè allo llItlllllllllIIIIIIIIIIIIIIIIIItlllIIIIIIIIIlllllllllllIilI stato di perfezione umana — è ancora Virgilio (non Beatrice) che proclama codesto suo supremo conseguimento. E non gli dice mica: hai conseguito il massimo utile. Gli dice invece: «Libero, dritto e sano è tuo arbitrio ». Dante fu uomo di parte; ma s'innalzò ben presto al disopra delle parti: non solo dei Bianchi e dei Neri, ma dei Guelfi e dei Ghibellini («Faccian li Ghibcllin, faccian lor arte Sott'altro »?gnn »), dei curia listi papali e d"!i giuristi francesi, di Bonifacio Vili e di Filippo il Bello. Egli ^innalzò l'esperienza politica sua, e quella più vasta della sua patria e della società europea del tempo, nell'empireo della suprema moralità umana; ed è perciò in lui, nella sua Divina Commedia, che Firenze raggiunge l'apice della grandezza e l'eternità della fama. Luigi Salvatorelli