Olivier e Vivien Leigh a Venezia rappresentano Titus Andronicus di Francesco Bernardelli

Olivier e Vivien Leigh a Venezia rappresentano Titus Andronicus FOLLA ED ELEGANZA PER GLI SPETTACOLI DELLA BIENNALE Olivier e Vivien Leigh a Venezia rappresentano Titus Andronicus La tragedia provoca raccapriccio, e molti critici negano che l'autore sia Shakespeare • Recitazione splendida, armonizzata da una regìa perfetta • La Fenice gremita di spettatori: applausi foltissimi (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 28 maggio. Il nome di Laurencc Olivier, splendido attore, è, più che illustre, leggendario; e felicemente sì accompagna a quello della moglie, Vivien Leigh, attrice lievissima e ardente, entrata nel cerchio magico dell'arte di Laurence con una sensibilità complice e surreale: coppia che ha -toccato alcuni vertici della finzione scenica, e che incanta il pubblico. Non si sarebbe potuto inventare a Venezia richiamo più grosso — intellettualistico e mondano — per l'inizio del festival teatrale. Invitati dalla Biennale, i due attori sono venuti alla < Fenice » con lo Shakespeare Memorial Theatre Company a recitare il Titus Andronicus (allestito in Inghilterra due anni fa); e la città antichissima, d'oro di marmo e d'acque, Venezia dogale, dai grandi musaici, internata nel mistero dei tempi, sembrò proprio la più, adatta ad accogliere ed a disciogliere nella sua bellezza la orrenda tragedia di Shakespeare. Shakespeare t Di fronte a un'opera come questa, folta di crudeltà e di ignobili lussurie, molti critici hanno recisamente negato: no, questo non è Shakespeare, noti può essere Shakespeare. Qual è la poesia di Shakespeare, è forse un delirio informe, un incubo che cola sangue, una sadica parata di sevizie t Samuele Johnson, letterato di sovrana autorità, pensava che Shakespeare non può aver scritto pagine coma queste. E neppure, a suo parere, le avrebbe ritoccate o infiorate su di un vecchio canovaccio. Non riesco a riconoscervi, diceva, un sol tócco shakespiriano. Che dobbiamo dire? Nulla naturalmente. Non saremo certo noi a risolvere l'enigma. Non lo potremmo. Ma possiamo dire tuttavia, con tranquilla coscienza, che se anche Shakespeare avesse scritto o rifatto, o ritoccato VAndronicus, avrebbe amito torto. Non siamo idolatri: questa tragedia provoca il raccapriccio, ossia la più bassa e avvilente delle sensazioni. Vi è chi la pensa diversamente, e vi ha trovato qualcosa di Re Lear, e la follia di Amleto e la perfidia di Jago. E un certo furore di Titus, straripante, schiumante — sono l'Oceano, egli grida — può essere un accenno a Lear, ma il pianto, il dolore di Lear è di una profondità cosmica, e la natura stessa che si scrolla e si schianta; questa di Titus è un'apostrofe violenta e ampollosa. Amleto, folle o no, è creatura tutta vera, articolata nel pensiero e nell'anima; qui siamo nella demenza. E Jago è la logica stessa, maledetta ma raffinata del tradimento; Aaron, nelI'Andiuniuus, non ha più faccia umana, infoiato e imbestiato nel male. I tócchi, le fiorettature, il balenìo di Shakespeare: si, qualche movimento della tipica eloquenza shakespiriano si può cogliere qua e là. Ma v'era allora una moda, una diffusa rettorica: lo stile elisabettiano. Ma vediamo un po': un dramma è un'adone, e da questa azione è condizionata la poesia. Qual è l'azione del Titus Andronicus? Indicheremo, brevemente, le varie situazioni in etti i personaggi vengono a trovarsi. Titus Andronicus, generale romano, la regina Tamora, che potrebbe essere una tigre non fosse di quell'infinito dell'anima che differenzia una donna da una belva, l'amante di costei, il libidinoso moro Aaron, capace di spegnere il sole con le sue turpitudini, e tutti quanti, insomma, sono tipi tali da far precipitare qua e là la tragedia non solo nel grottesco, ma nel ridicolo. Subito, un figlio di Tamora è fatto a pezzi per ordine di Titus, e gettato nel rogo. Poco dopo Titus, che ha già perso ventidue figli in guerra, ne uccide un altro in un attimo d'ira; e così, su questo allegretto, la tragedia si avvia. Ecco due baldi giovani, che con l'amorevole consiglio di Aaron e le sollecitazioni della madre Tamora, organizzano una pìccola orgia familiare: ammazzano Bassanio fratello dell'imperatore, ne violentano la moglie Lavinia (figlia di Titus) e affinché costei non li denunci le mozzano la lingua e le mani; il tutto inframmezzato da alcuni svaghi erotici di Tamora e Aaron. Naturalmente questi delitti sono dissimulati con accortezza, in modo che ne possano apparire colpevoli due figli di Andronicus, che saranno ben presto, con gioia grande di Tamora e compagni, decapitati. Il che non avviene tuttavia senza una faceta burletta. Si fa sapere ad Andronicus che se egli si taglierà una mano e la manderà all'imperatore, i suoi figli saranno graziati. Cade la mano di Titus, ed in compenso ecco arrivare le teste tagliate dei suoi due figli. Pensate le matte risate di Tamora e degli altri che spiano lo scherzo dal buco della serratura. E' chiaro che a questo punto la famiglia degli Andronici è piuttosto malconcia; e ci par naturale che fatti simili diano leggermente al cervello di Titus, il quale per consolare la figlia le fa strane proposte: vuoi che ci tagliamo tutti insieme le mani (che ci restano), vuoi ehe con i denti ci strappiamo la lingua per trascorrere poi il resto della vita in mute pantomime? Dopo di che, tu, 'dice al fratello, prendi la testa di uno dei miei figli, io con la mia unica mano porterò l'altra, e tu, Lavinia, che non hai più né lingua né mani, stringi tra i denti la mia mano mozzata e andiamo. Graziosa sfilata. Ma vi illudete se credete che sia finita. La sequenza dei delitti non finisce mai. Acciuffano Aaron, e vogliono impiccarne il figlio, un neonato, sotto i suoi occhi; Titus si impadronisce dei due figli di Tamora, stupratori e seviziatori, e li sgozza mentre la mutilata Lavinia con quei moncherini sostiene il bacino che raccoglie il sangue delle vittime. E' poiché Titus, così tremendamente piagato e feroce, ha tuttavia un fondo di humour, acciuffa le due teste, le porta in cucina, si veste da cuoco e ne fa una bella torta che porta poi in tavola affinché Tamora, la madre, ne mangi e si sazi. A questo punto però Titus l'ammazza dopo aver ucciso anche la cara figlia Lavinia, onde Saturnino, l'imperatore, a sua volta uccide Titus, ed è ucciso d .t Lucius figlio di Titus. E intanto Aaron è sepolto vivo a mezzo busto, e il cadavere di Tamora gettato alle bestie feroci. Shakespeare avrebbe dunque infiorato con le sue mani prodigiose questo nefando zibaldone t Osiamo dire che proprio i tratti volutamente immaginosi e « poetici », rendono più insopportabile la tragedia. Le barocche fiorettature non sono poesia. La poesia è un rapimento che'nascc dal dramma; e ne esprime e ne esalta con aderenza e irresistibile fantasia tutto il. contenuto. Talvolta Shakespeare, poeta totale, cedeva un tantino alla lusinga lirica, come se, tra l'amore incalzante e la morte in agguato, gli nascesse dal cuore un gorgheggio. Ma se ne accorgeva, e subito lo smorzava o soffocava, artista meraviglioso. Te ne prego, basta — dice un personaggio nel Clmbelino —; che le tue parole da ragazzina non giuochino con ciò che è cosi grave... E l'altro, con accento celeste, aveva parlato di fiori; ma il dramma urgeva! Non crediamo che si possa trovare nulla di simile, di cosi aereo, nel Titus Andronicus. E perché allora è stato prescelto da un attore come Olivier? Per scommessa? Ci parrebbe un po' futile. Pensiamo piuttosto che di quei fiumi di parole, di quel < realismo » orripilante, Olivier abbia voluto fare uno < spettacolo puro », una rappresentazione c assoluta », chiusa in sé, « vera » di una verità trascendente, staccata dai sentiménti e dalle passioni, in una luce che cancella l'orrore umano e infiamma un mondo senza giudizio e senza coscienza. E' un'ipotesi, forse paradossale, forse sofisticata. Ma è suggerita dalla bellezza e perfezione dello spettacolo che ha avuto per regista Peter Brook. Precisione allucinante, squadre di uomini all'agguato, all'assalto, luccichio di spade, colpi netti, folgoranti, un moto lucido, un ritmo incessante: le apparizioni di questi fantasmi, che pur sono tutti interi, aitanti, corposi, che si odiano e si massacrano, e la immagine lasciva, orientaleggiante, spaventosa di Tamora (Maxine Audley) e quel flessibile sanguinante adorabile stelo di Lavinia (Viuien Leigh), che agita, smorta, pallida, i suoi moncherini, e passa come una larva di Poe, martirizzata e colma non di grazia ma di male e di pietà; e l'infernale Aaron (Anthony Quayle), che balena nel buio, e il grandioso Titus, che ha il sangue spesso di veleno e di infamia, di dolore e di delirio, Laurence Olivier, che invoca su di sé e su tutto il mondo lo sterminio, che vorrebbe far crollare le volte del cielo: queste nefandezze, questo cozzo contro il fato, questa evocazione sacrilega, furono un che di perfetto, nella misura breve e sterminata del palcoscenico. Come sono riusciti Laurence Olivier, Pefer Brook e la loro mirabile compagnia a realizzare lo splendido spettacolo? Olivier, che ha portato in Italia questa rappresentazione a preferenza di altre perché, egli dice, il dramma è quasi ignorato ed è invece degno dt essere conosciuto, perché è una specie di scoperta, ed egli ne sente la forza tremenda, varia di macabri eccessi e di variazioni liriche, Olivier, meraviglioso attore, ha caratterizzato all'estremo il suo personaggio, ed ha colmato così le scene di concretezza umana. Non è un generico dolore, espresso rettoricamente, quello ch'egli ci ha rappresentato, ma è un uomo che soffre, quell'uomo, rozzo, crudele, ferito a morte e vaneggiante. Quando giunge alle soglie della pazzia è uno spaventoso e infantile gigante che sì china a baciare la figlia martirizzata. La sua tnaschera è tremenda. E segnata dai colpi del destino, il suo pianto tocca a tratti il sublime. Vivien Leigh, Lavinia, ha dato allo spettacolo la virtù aerea di uno struggimento che non può esprimersi, e si scava dentro, e si approfondisce sempre più. Il pensiero muto di Lavinia diventa quasi una percezione arcana, alata e intraducibile del destino. Tra queste due stupende figure Peter Brook ha equilibrato, ha suscitato con armonia perfetta la rappresentazione. Sovrana al¬ tezza, torrida t grave, accesa e cupa. I gesti di guerra, gli ammazzamenti, gli orrori balenano, e sono spaventosi, ma il suono, la luce, il colore del palcoscenico diventano con un fermo concertato qualcosa di incredibilmente vero. Di quella verità, di cui si è già detto, posta al di là del nostro ragionevole sentire. Costumi di carattere quasi allucinante, vtsiont di una profondità, nel chiaroscuro, che vi inchioda al vostro posto. Percepite qualcosa d'inspiegabile, un mito che scaturì dalle origini e che gronda di tutta la storia degli uomini. Il pubblico era soggiogato; la regina gota, ruscellante di ori e di gioielli, le insegne romane, i sacerdoti, tinteggiature verdi, aurate, brune, le stupefacenti evoluzioni che allargavano il palcoscenico, i canti, i gridi erano tanto densi, che senza voler fare ambiziosi paragoni, si può dire che accennassero a certe fantasie di Rembrandt. E se un'arietta di caccia mirabilmente intonata al moto di cavalieri e arcieri diede un fosco brio allo spettacolo, questo procede poi, solennemente ossessivo, tutto e sempre musicale. Quali attori! Di Olivier si è detto, di Vivien Leigh anche, sono attori che meriterebbero le parole che non abbiamo tempo di scrivere. Ma grande attore, e singolarissimo, si è rivelato quell'Anthony Quayle che interpretò il moro Aaron, e fulgida nell' assurda crudeltà Maxine Audley (Tamora) e un ottimo Marcus Andronicus era Alan Webb. Ma tutti, tutti sui toni alti e ritmati, in quelli bassi, in quelli violenti e sfioranti, mossero il dramma ad intensità crescente e travolgente, chiusero nel cerchio stupendo delle loro figure uno spettacolo barbarico e affascinante. Crediamo superfluo dire del pubblico; sala magnifica, gremita di spettatori, mondanità e cultura, e un bel gruppo di attori italiani eh" vollero dare un cordiale benvenuto all'attore straniero. Stupore, un che di doloroso tra il brivido e la perversità dei crimini, e poi applausi foltissimi unanimi. Alla fine dello spettacolo Laurence Olivier ha detto alcune gentili parole per ringraziare il pubblico italiano ed esprimere il suo compiacimento di trovarsi nel nostro Paese. Francesco Bernardelli Piero Piccioni tra 11 pubblico al teatro della Fenice (Tel.)

Luoghi citati: Andronicus, Inghilterra, Italia, Venezia