L'oratoria forense di A. Galante Garrone

L'oratoria forense L'oratoria forense In un'età come la nostra, si sa pquanto siano caduti in disuso, o maddirittura screditati, i generi dletterari, le varie precettistiche, i manuali di propedeutica, i trac-,ctati di deontologia professionale. In particolare, poi, è difficile oggi trovare chi creda seriamente alla pratica utilità delle regole e dei dettami disciplinanti la oratoria forense. Per la verità, può ancora accadere di sentir celebrare l'eloquenza giudiziaria come un'arte a sé stante, o i discorsi di Lisia e Demostene come modelli di valore perenne; o di veder tirati in ballo gli insegnamenti di Cicerone e di Quintiliano; o, anche, d'imbattersi in riviste specializzate che propongono all'ammirazione dei contemporanei (e sperabilmente dei posteri) le fiorite o patetiche arringhe di alcuni principi o prtncipotti del foro. Ma tutto ciò, lasciatemelo dire, ha un irrime diabile sapore di tempi andati. C'è pertanto da chiedersi se la traduzione oggi apparsa {Sull'oratoria forense, ed. Giuffré, 1957) di un'opera non recentissima di Maurice Gargon, il gran de avvocato a tutti noto, rispon da a una necessità profondamente sentita. Enrico Altavilla, nel qcaCbppinonziscsiCzngselefailriteliliLge e a cla calda prefazione, ha parlato! « V di un «manuale per l'oratoreIrforense», da mettere dunque in mano agli avvocati perché imparino meglio il loro difficile mestiere. Ma più modestamente l'autore, e anche, ci pare, più giustamente, ha messo in chiaro ch'egli non ha voluto comporre un trattato di eloquenza, ma solo raccogliere, più per sé che per ammaestrare gli altri, il frutto di una trentennale esperienza forense. Questa simpatica modestia, direi questa lezione di umiltà, è uno dei pregi maggiori dell'opera, e basterebbe da sola a giustificare l'odierna traduzione. Non direi che tutto, in questo libro, avvinca e persuada. Non ostante la vivacità di molti episodi e osservazioni, pare a volte di sentire l'uggiosa patina delle cose vecchie e tramontate, o avviate al tramonto. Gargon dice: « Noi. viviamo in un'epoca in cui la parola assume un'importanza sempre più grande... Eppure non si fa nulla per insegnare l'arte oratoria ». Questo « abbandono della rettorica » gli pare un assurdo, anacronistico errore. Ma noi sappiamo che se nel foro, come nei parlamenti e sulle piazze, l'arte del dire è scaduta o ha perduto efficacia, ciò avviene non già perché si siano trascurate le regole formali un tempo riverite, ma per il premere di esigenze pratiche, che potranno piacere o non piacere, ma sono quelle che sono: e anche gli oratori d'oggi non possono non risentirne. Piuttosto vana ci sembra la deplorazione che oggi i praticanti, gli avocats stagiaires, non siano convenientemente addestrati all'eloquenza forense, e corrano quindi il rischio di restare degli eterni principianti. Solo dalla raggiunta chiarezza del pensiero giuridico può nascere l'eloquio chiaro, persuasivo, avvincente. E anche infastidisce il vanto delle doti oratorie dei popoli latini, a paragone della secca e spoglia ed empirica eloquenza di quelli anglosassoni. Infine, assai discutibile ci sembra il valore attuale dell'insegnamento impartito dagli antichi retori: come si vede dalla genericità stessa dei consigli sul modo di svolgere un'arringa, secondo la classica quadripartizione dell'esordio, della narrazione, della discussione e della perorazione finale. Ma al di là di questi residui scolastici — probabilmente do vuti al tenace vigoreggiare della tradizione nell'eloquenza giudi ziaria francese —, le pagine di Maurice Garcon hanno il grande merito di battere in breccia la « grande », la « bella » orato ria forense. La prima risorsa del l'eloquenza, egli dice, è la con vinzionc sincera. Nell'eterno conflitto tra Gorgia e Socrate, tra l'abile sofisma e lo scrupolo della verità, il buon avvocato sa quale via scegliere. La sua parola è fatta per persuadere, non per brillare e mettersi in mostra. Chiarezza, semplicità, utilità di argomenti logici: questa è la suprema ars dicendi. Egli deve saper resistere alle stesse sollecitazioni del cliente, come alla morbosa ammirazione del pubblico; e soltanto proporsi di convincere i giudici, togati o non togati, in una totale abnegazione di sé. Deve guardarsi dall'affettazione, dalle bellurie arcaiche dello stile, dall'abuso della solennità tragica dell'eloquio, dei quoiisque tandem a ripetizione, dall'esagitato e incomposto modo di porgere, dall'enfasi urlante. « Talvolta i suoi sforzi lo portano a terminare con una voce rauca o falsa. In verità, se fosse commediante sosterrebbe male la parte <Bi moschettiere in un teatro di provincia ». Guai a scivolare nel ridicolo! « Alcuni si alzano sulla punta dei piedi quando terminano la frase, quasi dovessero portarla più lontano; altri, poi, si prendono la pancia con tutt'e due le mani e la sollevano come per darsi della forza ». Aggiungeremo che maitre Gargon ci ha dato l'esempio migliore di ciò che sia l'eloquenza forense con le sue plaidoiries (ultima quella ea tSuotdpvgclbmOprpldsaseQsCscrMsvrsvdgad per la ristampa delle opere del marchese di Sade), veri gioielli di chiarezza, brevità, semplicità, Alle pagine dell'avvocato francese possono essere accostate quelle di un altro grande avvocato da p'oco scomparso, Piero Calamandrei: di ancor più garbata finezza letteraria, di più pensosa umanità. Egli, che fu pure oratore sommo, non aveva indulgenza per la « cosiddetta » oratoria forense. Più di venti anni fa, quando uscì la prima edizione deW'Elogio dei giudici scritto da un avvocato, ci fu chi si dolse di questa severità. Ma Calamandrei ribadì il suo giudizio nelle edizioni successive (fino all'ultima, di due anni fa); né gli sapremmo dar torto. Egli senti che l'eloquenza tradizionale delle aule giudiziarie aveva fatto il suo tempo, e fatale era il suo declino. « Anche l'oratoria forense tende, come l'architettura, a diventare "razionale": linee diritte, pareti spoglie, abolizione di inutili ornamenti ». L'ideale sarebbe spezzare l'arringa in un dialogo fra l'avvocato e il giudice, come in un pacato e ragionato conversare attorno a un tavolo. Per estirpare dal costume forense la tendenza al « bel canto », egli diceva, ci vor rebbero aule non troppo grandi, e il banco degli avvocati vicino a quello dei giudici. Argutamen te definiva l'immensa aula delle Sezioni Unite della Cassazione una « istigazione alla grande oratoria ». Eloquente è l'avvoca to che « fida solo nella forza della ragione, in questa virtù di persuasione che, tra uomini civili, si dice abbiano le buone ragioni onestamente esposte da chi ci crede ». Per Calamandrei l'arringa idea le era un discorso semplice, di buona fede. Di qui la sua am mirazionc per Vittorio Emanuele Orlando («I giovani, per apprendere qual è l'eloquenza forense, come oggi si dovrebbe parlare, dovevano andare a scuola da questo novantenne... I giudici trattenevano il fiato per starlo a sentire. Quello era un avvocato onesto che li aveva sempre rispettati»), o per l'amico e collega fiorentino Giorgio Querci. Di qui, specialmente, indimenticabile fascino delle sue difese processuali. Parlava semplice e chiaro, in un piano argomentare da cui più non traspariva la fatica della preparazione; e lo sguardo si volgeva diritto a incontrare quello del giudice; e la voce, con quella sua dolce e aristocratica cadenza toscana, vibrava di umano calore, di convinzione sincera. Sapeva essere arguto e discorsivo; ma sempre con signorilità, con discrezione austera. E quando era in gioco qualche grande problema politico o sociale, quando si riaffacciava nell'aula il travaglio della Resistenza o la millenaria sofferenza del popolo, la sua parola si faceva d'un tratto sentimento e poesia; e, commossa, commoveva. Una delle sue ultime arringhe, bellissima, fu quella in difesa di Danilo Dolci. Chi fu a quel processo riferì che quando Calamandrei finì di parlare, gli occhi dei giudici erano appannati di lacrime. A. Galante Garrone iiiiiiiiiiiiniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii