Adolfo Venturi di Marziano Bernardi

Adolfo Venturi ONORATO UN GRANDE MAESTRO Adolfo Venturi Certo i modenesi avrebbero preferito che l'omaggio alla memoria di Adolfo Venturi, nato or sono cent'anni, il 4 settembre 1856, nella loro città, fosse reso in quell'Istituto di Belle Arti che fin dal 192* Modena intitolava al nome del grande studioso, riconoscendo in lui un autentico eroe della cultura, da annoverare fra gli uomini capaci di creare pressoché dal nulla •una nuova dottrina, e con essa la coscienza della sua necessità spirituale. A Modena infatti il Venturi aveva aperto la mente alle cose dell'arte nel laboratorio paterno ( « il mio buon padre — avrebbe scritto più tardi — per le necessità del vivere lasciò l'arte per il mestiere nel tempo in cui stucchi e scagliole ricoprivano la nobiltà della pietra e il calor del mattone »), e appena ventiduenne ottenuto l'ufficio di ispettore della Galle ria Estense, ponendo così le basi alla sua prima opera insigne, del 1882, appunto sulla Estense. Si decise invece che la commemorazione — in verità modesta a confronto di così alta figura, malgrado il discorso di Mario Salmi — si svolgesse a Roma nell'Università che Adolfo Venturi illustrò col suo insegnamento: un'adunata di dotti, quasi a dimostrare che anche 1 più grandiosi fatti della cultura son destinati a restare nella « compagna picciola a dei colti, lasciando la larga risonanza nazionale, la presenza dei ministri, ad altri fatti forse più vistosi, ma sicuramente più effimeri. Così l'omaggio più notevole appare quello da tempo predisposto da un editore attento, l'Einaudi, con la tempestiva pubblicazione del libro ora uscito: Epoche e maestri dell'arte italiana, un'antologia di scritti scelti nel mare di volumi, opuscoli, saggi e articoli che il Venturi ci lasciò, frutto d'una fertilità mentale mantenutasi intatta durante quasi settant'anni di formidabile lavoro, fino allo spegnersi della lunga vita il 9 giugno 1941. Vita, secondo un giudizio di Pietro Toesca riferito nelle bellissime pagine introduttive 'di Giulio Carlo Argan, che fu <t soprattutto di un educatore, di un maestro; in questo aspetto, non abbastanza conosciuto, la sua azione fu non meno vasta ne meno feconda per la nazione, che per gli studi nella ricerca e nella ricostruzione storica dell'arte »; e l'Argan dal canto suo aggiunge che questa azione, fin dal primo tempo dell'ispettorato alla Galleria Estense, strenuamente si volse « a costruire una cultura artistica che assicu rasse alla nuova nazione un posto di piena parità con le grandi nazioni del mondo moderno», ed a rivendicare sempre, <t nei confronti dei colleghi stranieri, la serietà e la dignità degli studi italiani ». Le voci dei due storiografi e critici, di diversa età ma entrambi insigni, concordano dunque nel riconoscere in Adolfo Venturi il creatore di una coscienza artistica italiana. Qual fosse essa prima di lui nel nostro Paese lo si apprende leggendo il vivace libretto di Memorie ch'egli, già settantenne, dedicò nel 1927 alla sua fida collaboratrice Maria Perotti; e tra la folla dei casi, dei personaggi, degli incontri, dei viaggi continui attraverso l'Europa, rivissuti sul filo dei ricordi di mezzo secolo di ricerche e scoperte, alcuni sono particolarmente indicativi d'una situazione culturale che lascia sbalorditi; non tanto perché sul Bollettino del Ministero dell'Istruzione si trasformasse il pellicano in mammifero scrivendo « simbolo del Croce. fisso c il pellicano che allatta i suoi pulcini », o perché nel Mu> seo Nazionale di Napoli «i ragni tessevano indisturbati da un quadro del Mantegna a uno del Tiziano le loro tele », mentre lo Stato non riusciva a raggranellare 25.000 lire per acquistare la Tempesta di Giorgione in vendita nella Galleria Manfrin; ma perché la più completa indifferenza per le cose d'arte sembrava presiedere vittoriosa e inattaccabile al consesso degli alti funzionari della Minerva. Ed eccone un esempio edificante. Celebre all'estero per i suoi libri pubblicati in inglese col Crowe, il pioniere, con Giovanni Morelli, dei moderni studi sull'antica pittura italiana, il sommo Cavalcasene s'era ridotto, povero in canna, a mendicare dal nuovo regno d'Italia, dopo il trasferimento a Firenze della capitale, un posto d'ispettore agli Uffizi. Lo collocarono invece al Museo del Bargello; ma nemmeno un bugigattolo dove poter condurre tranquillo i suoi lavori mirabili gli diedero, sì che il patriota che l'Austria aveva impiccato in effigie, ma più tardi pregato di esaminare i quadri della Galleria del Belvedere a Vienna (e ne aveva avuto in compenso una decorazione da Francesco Giuseppe), doveva dividere lo sgabuzzino degli uscieri. Ora avvenne che durante una visita a Firenze del principe ereditario di Prussia, questi fra i tanti funzionari dello Stato incravattati da commende che gli venivan presentati a Palazzo Pit¬ ti, chiedesse del Cavalcasene, «t Si guardarono i ministri l'un l'altro — narrava il Venturi — e subito giraron la domanda a direttori generali, a provveditori, tutti ignari del Cameade al quale Sua Altezza Reale mostrava riverenza ». Finalmente uno dei commendatori, interrogando a destra e a sinistra, riuscì a scovare nel suo stambugio l'autore di A new History of Painting in Italy. Fu presentato al principe straniero, e finalmente il Ministero della Pubblica Istruzione conobbe chi era il suo umile dipendente, Giambattista Cavalcasela. Tutto era dunque da fare, in Italia, nel campo degli studi d'arte e per l'organizzazione della tutela del patrimonio artistico nazionale. Il figlio dello stuccatore modenese vi si accinse con l'entusiasmo, col fervore che traboccano del resto da tutte le sue innumerevoli pagine di storia e di critica; e con un coraggio davvero eroico. Nominato nell'88 ispettore addetto alla Direzione Generale d'Antichità e Belle Arti, al superiore nella ge rarchia amministrativa che gli domandava : « Cosa ci viene a fare lei alla Minerva? », rispon deva impavido: «A fare il mio dovere ». Come scrive l'Argan, è unicamente per la sua costanza ed energia che le maggiori Gallerie italiane furono a quei tempi riordinate su basi scientifiche, e con l'aiuto di valenti quali il Cantalamessa, il Ricci, il Fleres, il Rossi, il Supino, illustrate da volumi tali da competere con l'Annuario dei Musei prussiani; che fu proseguito il catalogo degli oggetti d'arte del Regno, iniziato dal Cavalcaselle; che fu ri gidamente applicata la legge Bonghi, per cui «le somme incassate per la tassa d'ingresso da musei e gallerie dovevano esser devolute a incremento di questi istituti», mentre prima (proprio come oggi! ) tutto il denaro «andava riversato nel calderone del Tesoro ». E far capire certe ne cessità a gente come il direttore generale delle Belle Arti Fiorelli, il quale, appassionato archeologo, credeva che Cosmè Tura fosse uno dei Cosmati romani, non fu impresa facile. C'era di che assorbire tutta la attività di un funzionario tanto alacre quanto geniale. Ma l'or ganizzalore si sdoppiava meravigliosamente nello storiografo. Prima con l'Archivio storico dell'arte, periodico dal titolo volu tamente severo per escludere ogni dilettantismo, salito rapidamente a fama internazionale, divenuto poi L'Arte, condirctta da Lionello Venturi, illustre continuatore dell'opera del padre, de gno erede di un nome che do vrebbe esser caro a tutti gli ita liani; quindi coi venticinque volumi della monumentale Storia dell'arte. E la sua cattedra di Roma, intorno alla quale si formarono i più vividi ingegni dedicatisi agli studi artistici, per ol tre trent'anni ribadì il principio critico che illumina ogni sua pagina: la ricostruzione della personalità degli artisti attraverso la completa e diretta conoscenza delle opere. Marziano Bernardi