Un testimone nel deserto

Un testimone nel deserto Un testimone nel deserto Eravamo, un giorno di maggio, a Marta, sul lago di Bolscna: i contadini portavano glia chiesa della Madonna, per le strade coperte di petali di ginestre e di rose, i trofei della terra, costruzioni di frutta di ogni stagione, conservate con mille accorgimenti; e dell'acqua, i pesci variopinti; e gli strumenti del lavoro, le vanghe, le zappe, le reti: in una fest? pagana, dove ogni gesto era un ricordo remoto, sotto lo sguardo impassibile degli dei più antichi. Correvano i cavalli per l'erta: contadini venuti da ogni parte riempivano la chiesa, la cerimonia cristiana copriva come un mantello moderno il rito arcaico, i simboli materni: in cerchio, attorno al diafano azzurro del lago, ci guardava il verde chiuso dei colli. Si donavano pani e focacce fatte ad anello, che, per due sorta d'occhi rotondi su una testa appiattita, parevano gufi, o serpenti che si avvolgessero su se stessi o tenessero in bocca la coda: forse arcaici simboli del tempo, immagini della sapienza antichissima e misteriosa di quella preistorica Italia che tuttavia vive presente nella quotidiana vicenda delle piazze e dei villaggi. Sulla piazza, tra la folla di oggi e di sempre, e il pane, e i trofei contadini, e i petali dei fiori, nelle macchie di sole lucente e azzurre di ombra, girava, con le sue macchine appese al collo, l'amico che mi aveva portato alla festa, guardando con occhi acuti, cercando malcontento in quel mondo colorato in movimento l'ini' magine tipica, quella che rappresentasse, senza minuzia di cronaca, quella contemporaneità antica. Era un uomo piccolo, dalla testa rotonda, dal sorriso amaro, dal viso paziente e melanconico, su cui pareva di poter leggere la storia di un uomo del nostro tempo, uno dei drammi di chi, sradicato dal vento della storia dai nidi di una terra, va cercando altrove e dappertutto nuove radici, e le ritrova negli uomini d'ogni • paese, nei loro volti espressivi e mutevoli. David Seymour era uno dei maggiori fotografi del nostro tempo, tra i primi in quel gruppo ristretto e chiuso di persone che tendono a fissare per noi le immagini fuggevoli della realtà, a lasciarci un documento figurato che è insieme racconto, articolo giornalistico, critica, analisi storica, sociologica, politica, etnografica, e che arriva talvolta anche a superare i suoi limiti e a raggiungere l'espressione poetica. David Seymour portava in quest'opera la sua natura e la sua storia: forse, pensavo guardandolo muoversi stanco tra la folla, come un occhio che ha visto troppe cose e che tuttavia non può rifiutarsi le immagini, forse fotografa perché non ha una lingua materna, é la riceve dagli altri, fatta di gesti, di sentimenti, di azioni: la lingua più moderna, che si nega l'interna storia, perché essa è tutta storia, storia in atto. (Del resto, il gusto di Seymour pei riti popolari più arcaici, che faceva di lui uno dei maggiori conoscitori del folklore del nostro paese, che aveva percorso, fotografandolo in tutte le sue parti più sconosciute, dalle cerimonie dei serpenti di Abruzzo, alle rappresentazioni storico-religiose di Sicilia, era in lui una nostalgia di una terra materna: e anche questo era un segno del nostro tempo). Non ricordo se io lo avessi intravisto, negli anni intorno al 1930, seduto a uno di quei tavolini di Montparnasse dove arrivavano giovani di tutto il mondo. Vi giungeva allora da non so quale paese di Polonia o di Russia: con lui, allo stesso tavolo, approdava, da un paese di Ungheria, il giovane Capa, e con loro sedeva un giovane francese: Henry Cartier Bresson. Erano allora a Parigi i tempi di Man Ray, della fotografia cosi detta d'avanguardia: questi tre giovani furono tra i maggiori fondatori e iniziatori della moderna fotografia realistica. Ciascuno vi portò il proprio carattere e la propria storia: Cartier Bresson, il solo che avesse una patria storica sicura, in modo analogo a Le Corbusier e a René Clair, la chiarezza e il gusto critico della forma; Seymour e Capa divennero: americani, a meglio segnare e conchiudere il loro destino senza radici: Capa volgendosi alle immagini dell'azione; Seymour all'interesse per l'uomo, simile sotto tutti i cieli nella sua fragile esistenza, nei segni comuni del dolore, della povertà, della speranza. Lo conobbi molti anni dopo, dopo la guerra, illustre fotografo americano, quando venne a consultarmi per un lavoro che doveva eseguire per incarico dell'» Unesco » sull'analfabetismo in Calabria (lavoro per ifipzbqgciedaatcstdmmusAcdnnslt il quale trovò ogni sorta di difficoltà nei nostri burocrati, che per il solito falso orgoglio nazionale sostenevano che l'analfabetismo non esisteva). Ne nacque una serie di fotografie magistrali, di visi di fanciulli e di contadini, ciascuno dei quali è insieme un saggio, una novella e una denuncia: amara e solidale, perché animata da un amore senza illusioni, che si andò ad aggiungere alle sue altre figure dell'infanzia di Grecia, di Germania, di tutti i Paesi sofferenti del dopoguerra. Capa, suo socio ed amico, partiva per ogni parte del mondo dove gli eventi si gonfiassero in moti di rivolte o di guerre: e mori fotografando, colpito da uno scoppio di mina, in un episodio della guerra di Indocina. Anche Seymour viaggiava di continuo, a seconda dei fatti e degli eventi, ma più che le esterne vicende, lo guidava l'intuizione dei luoghi dove si manifestasse evidente il valore e il dolore degli uomini: e perciò la nostalgia di una terra vera, di una Vera patria umana, lo riportava nei Paesi più antichi, in Italia, in Israele, in Grecia, nelle terre del Sud, nei paesi della fatica contadina. Non era veramente un reporter, ma piuttosto un saggista o un moralista. Ma chi può oggi distinguere compiutamente e separare queste due attività, quando, in ogni avvenimento, tutto l'uomo è in gioco? Il destino lo trascinò, per le sue vie, alla morte di un giornalista. Da Roma, il mese scorso, era andato in Grecia per riposarsi, quando sopraggiunse la guerra del Canale. Non era suo com pito seguire quegli avvenimenti, ma certo dovette sentire necessario essere presente, e per quanto dissuaso e sconsigliato dai suoi associati e colleghi (lasciasse ad altri, più giovani di lui, quelle fatiche e quei rischi), volle partire: noleggiò un aeroplano privato per raggiungere Cipro, e di lì raggiunse i luoghi della battaglia. Conosceva quei deserti, conosceva soprattutto quei poveri che vi conducono la vita: i magri contadini arabi, i contadini di San Nicandro trapiantati nella terra promessa, con modesti visi di profeti. La tregua era proclamata: le armi avevano cessato di sparare: con un giovane fotografo giornalista francese partirono, testimoni indgè re sirodlomlorotosogunvdvdmdi! inermi, tra le linee. L'eroismo dei giornalisti è forse il maggiore, certo il più disinteressato: è l'eroismo di chi serve la verità, e ama e capisce gli uomini e la stessa violenza delle passioni, ponendosi in mezzo a loro, senza difesa, per dar forma di coscienza, di documento, al loro muoversi inconsapevole; per mettere uno specchio davanti ai loro occhi. Lo specchio si può rompere. La « jeep » dei giornalisti fotografi avanza tra le dune, sola sotto il sole bianco. Una pattuglia egiziana la scorge, spara, li uccide nella solitudine. Cosi finisce, non vista da nessuno, la vita di un uomo jfatta per vedere quella degli altri, il lungo viaggio attraverso il ' popoloso deserto degli uomini, in un'automobile rovesciata, nella sabbia desolata del deserto. Carlo Levi