Vietato pentirsi

Vietato pentirsi Vietato pentirsi Leon Dona sarebbe un ragazzino di buona famiglia, bene o male con una carriera davanti, ma ecco, per una vanità mortificata si vendica e dice la prima bugia e poi, rcg/ilarmente secondo il proverbio « chi è bugiardo è ladro », diventa ladro alla scuola di un compagno di indubbia scaltrezza, e addirittura un ospite di prigioni internazionali, in Francia, in Svizzera (svizzero italo-francese è il nostro personaggio) e finalmente in Italia. Ma non è soltanto questo; egli è anche uomo galante, benché alla pigra, senza darsi troppo da fare, è sorprendente ginnasta, con notevoli bicipiti, buon compagno e leale, curioso della cultura, ricco di fantasia, audace e tollerante, insomma un honmie come dice e sogna lui stesso, e un simpaticone. Come nei romanzi polizieschi della mia gioventù, Arsenio Lupin (o chi altro?), gentiluomo cambrioleur. Il quale Dona un certo giorno, avendo all'attivo sei « non luoghi », tre condanne, undici anni di galera su neanche quaranta di vita, racconta le sue vicende — « Io, io sottoscritto Leon Dona, che confesso dopo averle espiate, e tuttavia espiandole, le mie colpe e i mici errori » — e Augusto Monti le raccoglie e scrive. E così è nato Vietato pentirsi, ultima fatica letteraria del Monti, il caro autore di Tradimento e fedeltà, che l'Einaudi ha dato alle stampe. Per curiosità posso anche rivelare che la storia, salvo i nomi, è vera, e l'averla narrata non è un'indiscrezione, anzi il protagonista ne è del tutto contento. Augusto Monti lo conobbe a Civitavecchia, in quei tali anni, non proprio a spasso o in salotti o uffici come lo Stendhal caro a entrambi, ma in quel carcere governativo, e, buon giudice, si avvide d'aver sottomano una figura eccezionale da romanzo. Perché, in verità, Leon Dona non è soltanto un personaggio rocambolesco, con una punta di bon ton sociale; è anche un onesto. Onesto in quanto ha distintissima la coscienza delle sue azioni e se pecca è soltanto un debole, un viziato: ora Leon Dona non è al di fuori, né tanto meno al di sopra del bene e del male, anzi conosce con molta sagacia, spontaneamente e filosoficamente, in che cosa il bene e il male differiscano fra di loro, ma è un istintivo, un fantasioso, un nomo d'impulsi sentimentali, così che, perfino nel suo consumato mestiere di ladro( cade, per quel difetto, nella rete. Ma la sua mente è lucida, la sua coscienza è solo addormentata, non è sovvertita. Sin dai primi passi (quando frequenta quel tal compagno di gioventù, Rudy, che diventa suo maestro di scassi e furti) non è, lui lo sa, colpa del le cattive compagnie, ma è scel ta del suo istinto, inclinazione propria: nessuna scusa. E questa è, in una certa misura, onestà Chi, che cosa l'ha fatto quel che egli è? Ci sono due giustificazioni, ma che s'integrano, una del personaggio, l'altra dell'autore. Dice il personaggio: era il bisogno del rischio, della fantasia, di una attività «morale » — « non ridete, come quan do era viva mia madre, e io sognavo di farle una vita bella come quando avevo' una donna, tutta mia. e io volevo che fosse fiera di me » — insomma era suo modo, un ideale; e questo 10 porta a diventare, per amore di giustizia, di libertà, di serietà, antifascista militante e a ter minare la carriera al Tribunale Speciale e in prigione, fra i politici, e poi. perfino, nella Resistenza. E Leon Dona trova anche una spiegazione più generale, più sociale, diremo cosi: il colchico e velenoso, « eppure esso dalla buona terra estrae gli umori malefici, se li tiene per sé. non ce n'è più là per altri ». e se fosse anche cosi di quelli come lui, se avessero questa funzione di « drenar dalla società gli umori cattivi, bonificando cosi col loro danno la restante umanità »? L'autore poi, che ha buona coscienza storica, pensa che Leon Dona, nato con questo vicolo, marci con esso insieme, nelle intemperanze e incongruenze, incertezze ed eversioni, tragiche debolezze e inquietudini Cosi è il mondo intorno a lui, quel mondo che già la prima guerra mondiale ha tatto girare all'incontrano.' con tutto quell'invertito decalogo di Dio: « Ruba, ammazza, di' il falso, odia 11 tuo prossimo stupra » Un tiglio dei tempi. Leon Dona Ma poiché la sua coscienza non è spenta, quell'allegro, disinvolto cambrioleur non è sordo a certi richiami, sarà per un nuovo talento, per un nuovo rischio, ma insomma ecco che a poco a poco egli si fa un esame, e arriva a comprendere elle, se è nato deforme d'animo, la deformità può essere curata, raddrizzata, non si è catalogati razzialmente una volta per sempre; come ci sono i muscoli, c'è la coscienza morale, « questione d'allenamento »; è la lezione che egli succhia da un altro Leone, compagno suo di Civitavecchia, il quale non è altri che il nostro indimenticabile Ginzburg (e ,qui Dona detta, ma con quale animo Monti registra! e rivive). E la lezione sarebbe bene appresa, solo che « sempre nei secoli l'Italia nostra fu quel beato e disgraziato paese in cui nobiltà di tradizioni, gentilezza d'animo, mitezza di clima, ogni cosa invoglia la gente * viver onesta in pace; ma sempre governi non consoni alla sua natura vietarono alla gente di seguir perseverando quegli onesti inviti. Credevamo con la Liberazione di aver colmato finalmente l'abisso che scinde popolo da governo; il tuo esempio fra gli altri, diletto amico, dimostra che mal mi ero apposto. Spiacemi che vittima del persistente divorzio sia un forestiero, figlio per di più della libera Helvetia» (con questo stile scrive al nostro eroe un vecchio mazziniano)... E' successo insomma che Leon Dona sposato in Italia e messosi sulla buona strada è cacciato via dall'Italia, perché schedato sovversivo per poche parole imprudenti alla Renzo Tramaglino; e cosi lui « povero fesso », che vuole osservare la legge, dove altri stranie' ri la bucano (ùstascia, petainisti, nazisti ospiti nostri) deve andarsene; e se farà il galanfuomo, dice, è perché non è buono ormai a fare altro. Vietato pentirsi, dunque. E il cerchio si è chiuso. E' questa la morale del libro? A me pare che sia un accidente grave, un doloroso epilogo, ma non la morale della favola. Perché — difetto o meno deiautore — questo libro che è, come ogni altro del Monti, cronaca, piuttosto che romanzo, brillantemente ricostruita nei suoi ambienti europei, ha come vero centro vitale l'avventura, quell'ambigua, sconcertante avventura nella sua stranezza, nella sua ambivalenza — inclinazione al male, spinta al bene — i casi sorprendenti, ridanciani, anche grassocci, in sé e per sé interessanti e valevoli come in uno spregiudicato novellista del nostro Trecento o Cinquecento. Quel che non convince del tutto, perfino un certo disagio che il lettore prova è da cercarsi nella poco chiarita comu nicazione tra l'una e l'altra natura del personaggio, la quale rimane alquanto esteriore. E qualcos'altro di non interamente accettabile c'è pure: la scrittura tipica del Monti, parlata, allusiva, confidenziale, mnemonica (ma degna, tra parentesi, di studio) che qui risulta spesso faticosa e frantumata, e anche ci appare esorbitante qua e là la descrizione au ralenti di certi episodi assai poco pudibondi, ma del resto franchissimi e nient'affatto lubrichi. Ma il romanzo, dicevo, è nel gusto di quell'avventura sentita e goduta nel suo farsi. E se una morale da moralisti non c'è, il libro è tuttavia mora' nella sua forza intima: è la moralità che sorge dalla verità stessa robusta e sana di quella biografia di uomo che ha, sì, due facce, due anime coesistenti, ma che nel suo pratico agire cerca a un tempo- l'espressione e la ragione migliore della propria vita. Franco Antonìcelli

Persone citate: Arsenio Lupin, Augusto Monti, Franco Antonìcelli, Ginzburg, Leon Dona

Luoghi citati: Civitavecchia, Francia, Italia, Svizzera