I nuovi mecenati

I nuovi mecenatiI nuovi mecenati In una delle varie riviste di propaganda, rilucenti di inchiostri colorati e di indelebile ottimismo, che ci giungono dalla Germania orientale, e precisamente nella D.D.R. Revue, si può leggere un articolo interessante sulla risorta Galleria d'arce di Dresda. Le centinaia di capolavori famosissimi che ne co• stituivano la gloria furono, appena finita la guerra, salvate quasi miracolosamente dalle truppe russe; « salvate per l'umanità », dice l'articolista, e su questo tono continua, conciliante e cordiale, senza mai accennare alla minima discriminazione politica. I grandi pittori, ovunque siano nati e sotto qualsiasi regime, schiavistico, feudalistko o capitalistico, non sono altro che grandi pittori, e come tali vengono presentati alle folle. Prima di farli tornare a Dresda, i quadri furono tutti esposti a Mosca, nel Museo Pusckin, dove in poco più di tre mesi sfilarono un milione e duecentomila visitatori. Questa massa, dice l'autore dell'articolo, «si fermava religiosamente davanti alla Madonna di S. Sisto di Raffaello»; e dovette dimostrare un'ammirazione così sconfinata anche per le grazie della Venere del Giorgione e per la festosità godereccia dell'autoritratto di Rembrandt con la moglie Saskia, che la rivista ha creduto necessario riprodurre diligentemente quelle opere pure per noi occidentali ormai diserti. Ma nell'articolo c'è qualcosa di più inatteso, ed è l'elogio, appena un po' velato, di re Augusto il Forte e di re Federico Augusto III, ai quali si deve la creazione della Galleria di Dresda, oltre che del castello dello Zwinger nella stessa città. Se al loro entusiasmo artistico fu messo alla fine un freno «dall'ostilità dei borghesi verso il lusso dei prìncipi assoluti », l'articolista sembra tuttavia più propenso a difendere la prodigalità dei sovrani che non la grettezza dei sudditi; tant'è vero che così conclude: « Oggi la Galleria di Dresda e lo- Zwinger fanno parte dei più preziosi tesori della Repubblica democratica tedesca, dei quali ogni cittadino sarà sempre fiero». In un altro articolo della stes- sa rivista, dovuto a un biologo francese, si osserva che il Teatro di Weimar è stato ricostruito seguendo un antico progetto di Goethe, qui ricordato non come poeta bensì, senza ombra di ironia, come «Ministro di Stato di Carlo Augusto». Lo stesso biologo sente poi il bisogno di avvertire che nella Germania orientale non si vedono «i film criminali ed erotici, stupidi e disgustosi » importati in Francia da oltre Atlantico, e infine si chiede come mai in Occidente si voglia sostenere che il pubblico « esige spettacoli capaci soltanto di abbrutire », e si creda necessario, per rispetto alla libertà della persona umana, « di inondare i nostri schermi di produzioni odiose e demoralizzanti ». Da queste e altre considerazioni della D. D. R. Revue si può dedurre non soltanto che nell'Europa orientale la cultura del passato viene assunta in blocco senza riserve, ma anche che i dirigenti marxisti, lungi dal preoccuparsi com'era loro con' suetudine del sudore e del sangue costati agli schiavi dalle opere dell'ingegno umano, ne assumono invece l'eredità con una «.fierezza » che tutti dovranno condividere. La grande arte, insomma, viene imposta per amore o per forza ai cittadini, passando ben oltre i loro gusti frivoli 0 morbosi. Se in tutto ciò vi è un'intenzione recondita, rimane da tener presente che i risultati sono assai più confortevoli di quel che non sarebbero seguen do il metodo inverso: di disprezzare cioè le opere insigni ^el passato perché prive di socialità, oppure, come si fa ancora in certi ambienti nostrani, di ridurle caviliosamente a significati sociali che non hanno mai avuto La Madonna di Raffaello o la Venere del Giorgione, anche per 1 progressisti tedeschi, diventano oggi oggetto di «religioso» stu pore. Occorre pure ammettere che nell'Europa orientale, fra le molte restrizioni inaccettabili dagli artisti liberi, ce n'è una almeno teoricamente benefica, ed è quella rivolta contro la voigarità intellettuale di certi produttori e contro la miseranda innocenza di un gran numero di lettori e spettatori. Ci si potrebbe chiedere, ora, se non sia forse vero che l'arte fiorisce ottimamente sotto una spinta esterna: idea religiosa, politica, oppure mecenatismo privato o statale. Alcuni millenni di storia potrebbero infatti dimostrare che grandi capolavori, e anche trai massimi, sono stati creati sotto governi più o meno autoritari o addirittura tirannxi; e proprio perché, come riconoscono implicitamente i marxisti tedeschi d'oggi, l'opera d'arte non dipende tanto dalla società nella quale viene concepita, quanto dall elaborazione, dallo stile, dal genio personale dell'artista. Né basta_l'opera d'arte è anche legata a mezzi tecriicf ed economici che la società; astrattamente intesa, non può e non vuole offrire, e che soltanto un poten¬ qqclssa[" te organismo, fattosi d'imperio portavoce degli ignari cittadini, può invece prontamente elargire. Ne risulta che nelle democrazie le opere lontane dal gusto corrente, cioè non sorrette dal favore spontaneo della maggioranza, sia perché troppo nuove o troppo approfondite, sia perché non approvate dalle amministrazioni sottoposte a pubblico controllo, o nascono in un clima di ostilità, di indifferenza, di silenzio, o non nascono affatto. E tutto ciò ha anche un effetto, diciamo così, retroattivo: che difficilmente si trovano aiuti per la riesumazione di opere del passato, in quanto i classici, tutti notoriamente «noiosi», vengono considerati con tacito orrore da quelle 'stesse moltitudini alle quali si vorrebbero riproporre'. Al biologo francese della D.D.R. Revue si è dunque costretti a rispondere che ad esigere spettacoli capaci di abbrutire è proprio la peggiore e purtroppo più vasta parte del pubblico, inesorabile sabotatrice di opere letterarie, artistiche, teatrali o cinematografiche che non gli offrano quello che le piace, e quello soltanto. Ed ecco perché talvolta l'artista si sente indotto a rimpiangere i tempi in cui, sotto gli auspici di potenti protettori, un Ariosto poteva scrivere' l'Orlando e ["un Vanvitelli progettare la reg¬ gia di Caserta; oppure a considerare l'oriente europeo, dove si preferiscono Raffaello,' Shakespeare, Beethoven alle melensaggini o trivialità delle quali da noi tanta gente si delizia, come una patria perigliosa e forse crudele, ma meno ingrata di quella dove si è nati e dove parrebbe giusto e gradevole vivere; specie se tale patria è l'Italia. Detto- ciò, noi restiamo dell'opinione che l'arte abbia tuttavia bisogno di libertà, a costo delle peggiori mortificazioni. La libertà non è mai gratuita, in qualche modo bisogna pur pagarla, e l'artista la paga rinunciando forse ai suoi sogni più ambiziosi. Ma la rinuncia non dovrebbe superare un certo li mite, altrimenti il danno sarebbe di tutti, anche di coloro che negano futilmente quel calore umano e quel rispetto di cui, mancando più concreti compensi l'arte si contenterebbe. Quel che non si vuol chiedere allo Stato, si chiede dunque ai cittadini. Ma fin quando i cittadini rimarranno sordi, la tentazione del me cenatismo o della tutela dall'alto, per quanto deprecabile, sarà sempre latente negli artisti,, anche nei migliori: che sono anzi i più indifesi, i più delusi e sovente, nella consapevolezza del loro valore, i più oltraggiati. G. B. Angioletti

Persone citate: Ariosto, Beethoven, Federico Augusto Iii, Giorgione, Goethe, Rembrandt, Shakespeare, Vanvitelli