Piemontesi in Russia di A. Galante Garrone

Piemontesi in Russia IL MOTO DECABRISTA DEL 1825 Piemontesi in Russia • Per quali oscure ragioni — forse un fatto di sangue, per una rivalità d'amore, ma forse anche qualche motivo politico — il medico Vittorio Poggio, negli ultimi decenni del Settecento, lasciasse la natia Novara e si trapiantasse in Russia, non è dato sapere. Il fatto, in sé; non era sorprendente. La Russia di Caterina II formicolava di commercianti, avventurieri, artigiani, istitutori giunti dall'Occidente: e non mancavano gli Italiani. Ma ben singolare fu il destino di questo Piemontese legatosi a uno dei più geniali avventurieri e pionieri dell'epoca, de Ribas, e, con lui, tra i primissimi fondatori di Odessa. Qui, in questo disordinato mondo cosmopolita, tra emigrati francesi e gente d'ogni risma e audaci notabili russi, nacquero, nel 1792 e 1798, Giuseppe e Alessandro Poggio. L'affascinante vicenda di questi due figli del medico novarese, che nella Russia riconobbero la loro vera patria, e nell'esercito di Alessandro I cospirarono sino ad essere anch'essi travolti dal tragico fallimento del moto decabrista del 1825, e finirono in Siberia per lunghi anni, ci è ora rivelata da Franco Venturi (// moto decabrista e i fratelli Poggio, Giulio Einaudi editore, 1956). Ma questo esiguo volume è ben più che la biografia dei due fratelli italo-russi: è anche un mirabile saggio storico sulle origini ideali e il significato europeo del «pronunciamento» del 14 dicembre 1825 sulla piazza del Senato di Pietroburgo: che fu l'ultimo atto, l'epilogo ormai disperato di quel ciclo insurrezionale che, fra il 1820 e il 1825, dalla Spagna all'Italia, dalla Grecia alla Russia, agitò l'Europa. Tra questi fili sotterranei e profondi che legavano i decabristi alla temperie pulturale e alle esperienze di altri tempi e di altri Paesi, e che il Venturi ha messo splendidamente in luce, uno è la diretta derivazione dall'illuminismo settecentesco. In Occidente, quella cultura era stata mediata, ostacolata, interrotta dalla rivoluzione, dall'occupazione napoleonica, dal romanticismo della Restaurazione. In Russia, gli ardori illuministici della età di Caterina II rifermentàvano intatti nei decabristi, li accendevano ancora di un ingenuo, giacobino entusiasmo. Le appassionate letture di economisti e costituzionalisti ottocenteschi non avevano attenuato, nelle loro coscienze, l'illimitato fervore del secolo dei lumi, l'efficacia suggestiva di un Montesquieu, di un Voltaire, di un Rousseau. La loro fede nella forza persuasiva e rigeneratrice delle idee, certi loro sconfinati programmi di trasfjarmazione non solo politica ma sociale, serbavano ancora l'arcaico sapore delle pagine avidamente lette nelle biblioteche paterne. Anche per 1 decabristi l'esercito era stato il terreno da cui erano germinate le idee liberali e rivoluzionarie. Essi sentivano l'orgoglio di appartenere all'armata che aveva occupato Parigi; e, in pari tempo, la delusa amarezza per il crollo delle grandi speranze suscitate dalla guerra contro Napoleone. Lo stesso orgoglio e la stessa amarezza erano negli ufficiali che in Occidente avevano vissuto, da una parte o dall'altra della barricata, l'epopea napoleonica: in Spagna come in Francia, in Italia come in Germania o in Polonia. Da ciò, tra i militari o gli ex-militari di tutti questi Paesi, il serpeggiare delle società segrete, e il loro propagarsi in Russia; e l'immenso valore che assunse, anche agli occhi dei decabristi, l'esempio della rivoluzione spagnola del 1820. Fu una sorta di fascinazione mitica. Dunque era possibile, grazie , al c pronunciamento» di un esercito, una rivoluzione senza sangue, senza sussulti sociali, senza Vandee: che non ricalcasse, insomma, le orme paurose della rivoluzione francese. E le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte, e da ultimo la Grecia insorta, sembravano confermare la miracolosa novità. Fu la grande illusione di quegli anni, a cui solo il fallito pronunciamento del 1825 diede un colpo mortale. Ma ancor più sorprendente di questo estremo ravvivarsi in Russia del « mito spagnolo », è forse vedere i decabristi riprendere puntualmente, nelle loro interminabili discussioni e divergenze, gli stessi temi che allora dividevano i cospiratori occidentali: monarchia costituzionale o repubblica, assemblea costituente • governo provvisorio e dittatoriale per un congruo numero di bvsm anni, e perfino certe particolari istanze caldeggiate in taluni ambienti carbonari: come il directoire occulte o il sénat conservateur. Sotto i cieli più lontani, uno solo era il<travaglio-ideologico e morale; comuni erano le reminiscenze culturali e le aspirazioni politiche. I decabristi si sentivano affratellati ai carbonari d'Occidente da un eguale pensare e sentire. Le stesse peculiarità del movimento decabrista meglio risaltano se guardate su questo sfondo europeo: come l'idea del tirannicidio, dello < sterminio della famiglia reale», che anche l'ita-. Io-russo Alessandro Poggio aveva propugnata; o l'intuizione di Pestel, che il problema fondamentale in Russia sarebbe stato quello della liberazione dei servi, congiunta a una redistribuzione delle terre. In tutti, poi, era fortissima un'entusiastica volontà di dedizione alla sorte degli umili. Diceva Bestuzev-Rjumin: «L'entusiasmo trasforma il pigmeo in un gigante. Distrugge tutto e crea il nuovo ». L'idea del « sacrificio » era al centro della loro ideologia. Alla notizia del moto, un x'ecchio aristocratico russo disse: «Finora le rivoluzioni si erano fatte dai ciabattini che desideravano diventare signori; in questo caso erano i signori che tentavano di fare la rivoluzione per divenire dei ciabattini». Nicola I, con una durissima repressione, cercò di espellere dalla storia russa questi fermenti di libertà, che risalivano all'età di Caterina II e di Alessandro I. Con brutale tracotanza uno dei giudici, il ministro della guerra, cosi scherniva i decabristi arrestati: «Voi, signori, avete letto ogni cosa, e Destutt de Tracy, e Benjamin Constant, e Bentham, ed ecco dove siete andati a finire. Io, in vita mia, ho letto soltanto la Sacra Bibbia, ed ecco quel che ho ottenuto », e additava sul suo petto una fila di medaglie luccicanti. Ma. lo zar non potè impedire che i germi più fecondi del decabrismo riattecchissero, qualche decennio più tardi, nel populismo; che la tragedia del 182; si trasfigurasse in eroica leggenda. Alessandro Poggio fu dei pochi che sopravvissero a questa trasfigurazione. Per più di quarant'anni soggiornò in Siberia. Scriveva un contemporaneo: « La sua bella barba nera e i baffi sottolineano la sua fisionomia italiana, mentre il suo costume è un castellino russo». Da buon italiano, preferiva alla carne i legumi, e coltivava nel suo orto cavoli^ e meloni, rarissimi in Siberia. Qualche anno dopo l'amnistia del 1856, vecchio ormai, si stabili in Svizzera e in Italia. Herzen parlava con ammirazione di questo titano «maestoso ed energico», bianco e bellissimo. Si era rinchiuso nelle sue idee come «in una corazza»; ma aveva ormai abbandonato ogni proposito di lotta, e sconfessava i metodi insurrezionali. Un suo amico ci racconta che a Firenze, nella quotidiana pas¬ seggiata lungo l'Arno, Poggio soleva incontrare e salutare con un inchino Vittorio Emanuele II, che, dalla sua elegante carrozza, ogni volta si toglieva cortesemente il cilindro. Ed anzi, era il ire che si scappellava per primo, tanta simpatia gli ispirava quello sconosciuto vegliardo. Si sarebbe detto che l'ultimo dei decabristi, il cospiratore e il regicida di un tempo, si fosse ormai definitivamente acquetato alla nuova realtà delle monarchie costituzionali e liberali. dell'Occidente; e avesse finito per dimenticare la sua patria russa. Ma così non fu. A settantacinque anni Alessandro Poggio, sentendosi prossimo alla fine, volle tornare in Russia. Mori a Voronki, in «uno splendido e tepidp giorno di luglio », dopo avere ancora « trovato in sé la forza per esprimere la sua gioia di fronte allo spettacolo della ricca vegetazione della sua steppa nativa ». A. Galante Garrone