Il gallo cedrone

Il gallo cedrone Il gallo cedrone Dicono che il gallo cedrone — gallo di monte, o urogallo — sia amantissimo della sua compagna. Ma devono essere storie, perchè dell'amore coniugale degli uccelli e di ogni altro animale nessuno ha mai saputo niente. Delle loro passioni sensuali, della loro quasi vorace cupidigia per la femmina nella stagione del cosiddetto amore, delle leggendarie sfide, anche mortali, per la sua conquista, si; qualcosa anche delle loro feste nuziali, ma del quieto, intenso amore coniugale, l'unico vero, moltiplicato dalle prove della convivenza, dalla soddisfazione quasi divina della consuetudine, questo no, questo è solo, sebbene in rara misura, in disugualissime proporzioni, conosciuto fra gli esseri umani. E questa è anzi la prima distinzione importante nel mondo animale. E' certo tuttavia che il gallo cedrone ha un canto particolare nella sua ora d'amore, un canto, per così dire, di epitalamio, tanto esprime qualcosa di misto tra il fascino e il pianto, forse appunto per ciò che di incantevole e di struggente è in un sentimento consimile. Nessuno riferisce di averlo inteso bene, cioè completamente; chi nota un certo singulto patetico, chi uno strido prolungato, di difesa o di offesa? o forse di trionfo tranquillo? e poi di nuovo un lamento. Questo significherebbe che ci sono gli uni e gli altri toni, una varietà meditata di canto, e ciò sembrerebbe nascere da qualcosa di più profondo che il semplice grido di corteggiamento o di possesso. Sta di fatto che, contrariamente a quel che si crede, difficile è uccidere un gallo cedrone in quel tempo, e persino incontrarlo. Rimane nascosto e vive in quel modo la sua vita, quale che sia, di felicità. Bisogna aspettare che sia solo, non semplicemente senza la femmina, ma quando la femmina è morta. Allora, che cosa succeda in lui chi lo sa, ma è sicuro che sbuca fuori dalle grandi macchie, dalle alte frange degli abeti, si mette quasi in vista sui massi nudi, e, naturalmente, non canta e non grida più. Si espone ai colpi, parrebbe. Che cosa lo prende? I libri di storia naturale non lo dicono, ma una volta tanto le nostre comuni esperienze di psicologia possono colmare la lacuna. E' il ricordo che lo fiacca nella sua forza? Nella poesia lì gallo cedrone l'amico Montale sembra indovinare. Zuffe di nidi,'amori, nidi d'uova — marmorate, divÌ7iel Ha mai visto Montale un(gal- 10 cedrone? Non importa, ma quel momento lo deve avere intuito con tutta la raffinata acutezza che è sua. Io non so — anche questo è un mistero — se 11 ricordo sia qualcosa di cui si possa parlare a proposito di bestie. Il ricordo è storia, potere cosciente, maturità. Così effimera invece, così subumana è la vita animalesca, un guizzo senza solco, così cancellabile, anche quando si sprigiona in certi momenti della nostra stessa esistenza di uo<ni;ii! E se non sarà il ricordo, sarà un'altra specie di abbandono, di rilassamento, e perfino una speranza o un desiderio di morte: certo, la fine delle fini, cioè la stanchezza della vita, quando la vita è, o sembra, privata di ogni sua ragione. Il cacciatore seppe giù al paese, a metà declivio della montagna, che da un mese circa un gallo cedrone di Zernèz aveva perduto la sua compagna', e che si era ritirato chissà dove, ma insomma in una certa parte non molto vasta quasi a picco sul paese, dove già era apparsa una traccia di neve. Una mattina presto salì. Era un giovanotto bruno, un po' tozzo, sicuro di sé, silenzioso. Camminò fin verso mezzogiorno, un po' a caso, divagando; gli capitava di scivolare spesso, tante erano le foglie marcite, e lucide le pietre dalla pioggerella della notte. Si fermò a riposare e a mangiare. Il silenzio intorno era grandissimo e faceva anche un po' freddo. Era la fine di settembre, quel giorno il sole non era quasi comparso, la natura sembrava sbadigliasse ' di tristezza. E più in alto quel poco di neve dava un luccichio un po' tetro. Il cacciatore era sposato da tre anni, non aveva ancora' avuto figli, e faceva il falegname in un'altra vallata. Era abituato alla solitudine, parlava poco, ascoltava storie volentieri, non beveva quasi. La moglie stava sempre in casa. Spesso era malata: mesi prima aveva avuto paura di perderla, proprio all'inizio della prima gravidanza. Ora le cose parevano mettersi per il meglio. Riprese a salire. Aveva, sì e no, quattro ore di tempo davanti a sé. La luce andava via presto anche, lassù più in alto, perché una montagna più alta ancora si parava di fronte maestosa e gettava rapido il suo buio. Dove poteva essere il gallo? Pensò che sarebbe stato per lui difficile andare molto addentro nel bosco degli abeti, dove non era il più piccolo sentiero, dove sarebbe sdrucciolato di continuo, e dove, specialmente, fra breve l'ombra sarebbe stata assai folta. EscmrsEtvdstsapdculadpvtsgtpldatpzErcsI E il gallo non si sarebbe fatto sentire. Allora puntò il fucile contro una roccia a un cento metri di distanza. Pan! il colpo rintronò "secco come una lastra spezzata. Qualcosa fischiò via. E poi subito il silenzio ringhiottì tutto. Ma certo, pensò il giovanotto, se c'è, vien fuori a vedere: comunque si muove, si sposta, fa qualche rumore, lascia traccia. Continuò a marciare, in salita diretta questa volta. Gli abeti erano poco più su. Lento, prudente, ma in qualche modo deciso come se l'idea dell'incontro fosse più una sfida che una caccia. Ancora due ore di luce buona, poi avrebbe dovuto affrettarsi per la discesa. In quell'ora del pomeriggio, di solito, la moglie si alzava dal panchetto dove stava al sole davanti all'uscio di casa e si portava più in là, a cercare altro sole, continuando i lavori a maglia per il marito e per il nascituro. Era una brava donna, un po' gracile, ma lavoratrice, silenziosa anche lei, ma così piena di affetto. In tre anni si erano abituati tanto bene l'uno all'altra che indovinavano i mutui pensieri, offrendosi in precedenza quanto sapevano desiderato. E ora quel figlio da nascere sarebbe stato un suggello, la felicità delle cose naturali, il complemento del poco che non rischia mai di diventare il troppo. Il cacciatore, così pensando, chinò la testa per scuotere una foglia che le era caduta sopra. La rialzò e vide a un cinquanta metri il gallo cedrone. Gli batté il petto. Era un bell'animale, grosso, d'un piumaggio fitto e ben segnato, con la coda aperta a ventaglio. Stava su un ramo frangiato di abete, quasi appoggiato al tronco. Il cacciatore restò fermo e lentamente lentamente cominciò a muovere la spalla destra per far scivolare la cinghia del fucile, poi, sempre più cauto, portò il fucile alla presa della mano. Pensava che era meglio giocare di calma, per non spaventare l'uccello. E non osò fare un passo più avanti. Ma il gallo fece un breve salto e si mise sulla punta del ramo che dondolò fortemente. Sotto l'abete c'era una macchia bianca di neve. Il giovanotto alzò con movimenti al millesimo il fucile e lo puntò. Aggiustò la lente sulla canna e guardò. Grande, ora, quasi smisurato, gli apparve il gallo cedrone, in un atto remissivo, indolente. Ma fissandolo si vide scontrato da un occhio così terribile che pareva disperato. Una pallina da schioppo lucidissima quella pupilla, e in più esaltata, febbrile. Pareva che attraversasse la canna del fucile e si ficcasse con violenza nell'occhio dell'avversario. Forse quello era il momento venuto dell'abbandono, dell'offerta alla morte: sembrava che fosse uscito dall'ombra e dal silenzio efiolo per quell'ultima ragione. Il gallo non si muoveva, anzi si era irrigidito sul ramo quasi per fare più spazio intorno e migliorare la mira del cacciatore. Scuro, quasi rossiccio, con un gran tonfo cadde nella chiazza di neve. Un volo di piume lo circondò di un alone. — Non lo sa che il suo sangue fa bene alle puerpere? — gli dissero in paese quando il giovanotto nell'oscurità passò davanti a qualche lampadina accesa nelle case, con il suo bestione sulla schiena. — Lo porti, lo porti a sua moglie! Franco Antonicellì nammiiimiimiimmiiiii iiiiiiiiiiim

Persone citate: Franco Antonicellì, Scuro