La regina margherita di Paolo Serini

La regina margherita La regina margherita Celebrata in versi e in prosa da poeti e letterati, con a capo il grande Carducci, ammirata e talora venerata da molti uomini politici e di severa cultura, da Minghetti a Rufflni, acclamata con calda devozione da milioni d'italiani d'ogni legione e d'ogni ceto, Margherita di Savoia godè, soprattutto nei primi quindici anni del suo regno, di una popolarità superiore a quella di qualsiasi altra sovrana dell'Ottocento: con la sola eccezione della regina Vittoria. Se non dette, come questa, il proprio nome a un'età storica, e non conobbe i fasti d'un giubileo imperiale, vide anche lei fiorire intorno alla propria figura una leggenda. Suscitò entusiasmi e devozioni quasi incredibili; rifulse agli occhi dei contemporanei come «la stella candida propiziatrice » tra « la storia d'Italia antica e la novissima »; apparve anche a freddi osservatori stranieri come la vivente incarnazione della regalità: d'una regalità ingentilita dalla bontà c dalla bellezza, dalla carità e dalla cultura. Di qucll'immagii-.j mitica non molto sopravvive oggi, pur tra i fedeli della dinastia. Né molto resiste a un pacato esame critico: anche se condotto (oltre che con schietto impegno storico) con equilibrio e discrezione, e sottile finezza psicologica, e cordiale simpatia umana, come quello compiuto, sulla scorta d'una larga informazione e di nuove testimonianze, da Carlo Casalegno nel suo saggio La regina Margherita (Einaudi). La sua bellezza? Certo, la natura le aveva dato volto, sguardo, braccia bellissimi e bellissimi capelli e un sorriso incantevole; ma anche un corpo non molto felice, per quella sproporzione tra il busto fortemente sviluppato, e le gambe, un po' cor te e tozze, che doveva poi ripetersi, aggravata, nel figlio e farne l'infelicità. La sua eleganza? Molto « regale », non c'è dubbio, e di grande effetto; ma, a ben guardare, troppo vistosa e complicata, con « troppi fronzo li e nastri e arricciature » e troppi gioielli, tanto da farla sem bj;are « una statua votiva ». Né sono più possibili oggi illusioni sulla sua felicità coniugale: che il suo non fu un matrimonio d'amore né, se amore ci fu nei primissimi tempi, esso durò a lungo: Umberto era già da un pezzo legato alla Litta (cui si aggiunse più tardi la contessa di Santa Fiora), e «mai l'orgoglio non avrebbe consentito a Margherita di nutrire per il marito infedele i teneri sentimenti e la paziente indulgenza di Maria Adelaide per Vittorio Etnanue le II ». Ancor più grave la « mésintelligence » col figlio: nella figura fisica come nelle caratteristiche morali tutto l'opposto di quell'idéal figura del Principe disegnata dal De Meis nel Sovrano («grande, bello, forte al possibile, sfarzoso, un po' sensuale e, sopra ogni altra cosa religioso ») che arrideva alla fantasia di Margherita; e che, d'altronde, non tardò ad assu mere nei confronti di lei un gelido atteggiamento critico. E non poche riserve merita, se non la sua religiosità («intinta di superstizione » e di formalismo, ma non ipocrita, anzi capace di slanci sinceri), la fama ch'ella godè di regina intelligente e colta, fine intenditrice d'arte e di poesia. Sì, ella si circondò di « celebrità » del mondo della cultura; e fece di tutto perché il suo « circolo » non fosse inferiore ai salotti di donna Laura Minghetti e della marchesa Gostanza Gravina; e a trent'anni si mise a studiare con impegno il latino, sotto la guida del Minghetti, riuscendo a impadronirsene abbastanza da tradurre Sallustio e Cicerone,' Orazio e Virgilio; e apri la reggia, sin allora ignara di altra musica che non fosse quella delle bande militari, alla musica sinfonica e da camera. Ma la sua intelligenza era limitata e il suo gusto delle lettere e delle arti ritenne sempre alcunché di dilettantesco e, insieme, d'un po' pedante, e fu più voluto e ostentato che istintivo e geniale. Senza dire che, se parlava bene il francese e il tede sco, il suo italiano, venato di piemontesismi, era tutt'altro che sicuro; e le sue lettere sono costellate di errori d'ortografia e di sintassi (scriveva « paggine » e « libbro », « vadino » e « sares- SÌITIO »)- Quanto poi alle sue idee o meglio, alle sue simpatie e antipatie politiche, ognun sa, oggi, quali esse furono. Se ella ballava la quadriglia con l'ex-mazziniano Nicotera, e recitava allo Zanardelli i versi di Carducci, andava ad ascoltare le conferenze di Enrico Ferri, e sorrideva a scontrosi repubblicani, questi gesti facevan parte del suo « mestiere » di regina. Ma le sue predilezioni andavano all'assolutismo paternalistico, agli uomini d'ordine, alle maniere forti («Il bastone, caro Ruffini, ci vuole il bastone ». diceva negli ultimi anni al senatore piemontese). Il suo ideale fu sempre quello d'un governo autoritario, sottratto alle lotte e alle vicissitudini parlamentari, rigido custode dell'ordine e ligio agl'interessi dinastici, benevolo alle classi popolari, ma pronto all'occorrenza a d'si Eprtilesepa( pchdeveGdmcaqmimsorali« tigsan(vzseddlavinsulasfnapzrrfCmstervtitpaacdMstmdsrgn(gsnatnstnctn a , , a o e a a reprimere, anche con lo stato d'assedio e la mitraglia, qualsiasi minaccia all'ordine costituito. E il suo patriottismo ebbe sempre qualcosa di chiuso, di fanatico, da nazionalista « avant la lettre» (lei stessa confessava d'essere « chauvine »). Così, ella simpatizzò naturalmente per Crispi ( pur non ignorandone le « attaches » massoniche e il disordine della vita privata) e avversò, invece, Zanardelli e, soprattutto, Giolitti; nutrì sempre ostilità e disprezzo verso il regime parlamentare (di cui d'altronde non capiva il meccanismo) e verso quella «mandra di maleducati malvagi » che agli occhi suoi lo impersonava; accomunò in un solo sentimento di odio e di paura radicali e repubblicani, socialisti e anarchici («farabutti», « brutti visi di canaglie insolenti », da domare mediante un regime « tutto tinto di color di sangue »); salutò con sodisfazione la tragica fine di Cavallotti (nella quale non mancò di ravvisare la mano della Provvidenza, « che fa sempre bene le cose») e plaudì nel '94 allo stato d'assedio in Sicilia e nel '98 alla dura repressione dei moti di Milano; e, dopo il 1900, disapprovò il nuovo corso della politica interna segnato da Giolitti. Nessuna meraviglia, quindi, che, nella crisi del dopoguerra, ella si sia schierata apertamente per il fascismo: sino a fare, dieci giorni prima della marcia su Roma, a De Bono e a De Vecchi, « i più grandi auguri per la realizzazione dei loro piani» (pur diretti contro il governo legale del re) e ad esaltare come un perfetto gentiluomo Mussolini. (Il Casalegno nega però, con argomenti che ci sembran validi, che si possa parlare, come pur è stato fatto, di una sua « politica » e che ella abbia esercitato una reale efficacia sulla politica governativa e sullo stesso Umberto I. Tutt'al più si può dire che influì anche lei, per la sua parte, sulle tendenze reazionarie prevalse a Corte negli ultimi anni del regno e che concorse anche lei a orientare la monarchia verso quella politica che doveva condurla alla tragedia di Monza). Pure, nonostante i limiti della sua intelligenza e della sua cultura, la ristrettezza della sua mentalità e dei suoi gusti, il fondo « controriformistico » della sua pietà e il carattere reazionario del suo sentire politico, Margherita non fu una donna comune. Anzi, per taluni aspetti, fu (a giudizio del Casalegno) migliore della sua « leggenda ». Il suo gusto del sapere era, pur nella sua superficialità, sincero, al pari del suo amore della montagna o della sua carità. E se non di rado ella ci appare nei suoi atteggiamenti un po' enfatica e teatrale (in lei, dice benissimo il Casalegno, « la retorica era sostanza di cose pensate »), e qualche volta un po' vana e pettegola, scorgiamo tuttavia « in tante sue lettere un affetto semplice, una grazia modesta, un garbo timido e gentile, che la "leggenda" ignorava ». Soprattutto, ebbe altissimo il senso della regalità. E della regalità seppe incarnare come poche — in un'età in cui essa serbava ancora un compito e la monarchia appariva come la forma necessaria della nazione italiana — il mito, a un tempo antico e nuovo, carismatico e -popolare. Così, se, come osserva il Casalegno; noi non possiamo dimenticare quanto di duramente retrivo, e di chiuso e ostile ai pro¬ bptinrovdserel'«oboccapl'mta«ttsdanIvIl 11111111111111F11 ì M ! 11 il 111 II i MI f M 1M blemi e bisogni del nostro popolo, ci fu nel suo sentire politico, non dobbiamo dimenticare neppure che, in un periodo oscuro e difficile, Margherita attuò veramente agli occhi della grande maggioranza degl'italiani, che sentivano il suo fascino e ignoravano le sue tendenze politiche, e a quelli di molti stranieri, l'idea della regina d'Italia: della « terra della poesia, dell'arte e di ogni cosa bella ». E che contribuì per tal modo a rafforzare, oltre e più che l'istituto monarchico, quel nuovo stato unitario che aveva pur sempre di fronte a sé, anche nella stessa Roma, potenti forze e ad attirare nell'orbita delle sue istituzioni uomini e gruppi a esse inizialmente ostili. Forse, come rilevava qualche anno fa Croce, ella non fece che « rappresentare,, con intùito e tatto femminile, una parte ». Ma tale parte la rappresentò, nella sua stagione migliore, con indubbia felicità. E « anche questo appartiene alla storia e conta nella stòria ». Paolo Serini Il 1111M M11111111111 ■ 11111M11M1111M i 111M11 n IM111 ■ 11M1

Luoghi citati: Italia, Milano, Monza, Roma, Santa Fiora, Sicilia