Sorrisi

Sorrisi Sorrisi I ritratti dei personaggi dell'ottocento ci porgono tutti volti seri, meditativi: Napoleone e Francesco I, Cavour e Mazzini, Depretis e Crispi: nessuno sorride. L'iconografia del nostro tempo non registrerà che sorrisi: presidenti e re, prelati e capi comunisti, uomini politici scienziati ed artisti, occidentali asiatici e negri: tutti accomunati nel volto ilare. La convenzione è di sorridere. E, come tutte le convenzioni, non nasce dal nulla. Che c'è alla base? Varie cose. Forse la prassi di due guerre: il comunicato del Quartier Generale deve sollevare i cuori, anche se le cose vanno male. Un relitto dell'insegnamento dei pragmatisti e degli psicologi sperimentali: «non piangi perché sei triste, ma sei triste perché piangi»; atteggia la bocca al sorriso e diverrai lieto; fa i gesti della fede, ed il senso religioso lentamente penetrerà in te; mostra sicurezza e conquisterai il mondo. La caratteristica di una generazione che ha portato all'estremo il pudore dei propri sentimenti: ch'è l'antitesi di altre generazioni ove i giovani mettevano in piazza le proprie crisi sentimentali, i loro sconforti, postulando confidenti, impetrando consolatori. Oggi l'uomo ha coscienza di essere solo. Sa che gli altri ,non partecipano ai suoi problemi ed ai suoi dolori; inutile mostrarli. Qui pure ad una tale coscienza si unisce quella che è ancora una ostentazione: il culto del «modello», dell'uomo forte, che racchiude nello scrigno del preprio petto la sofferenza e sorride col cuore sfrattato. Modello non di semplici (non ha che fare con la tradizione novellistica del viaggiatore che nell'albergo sperduto di montagna è accolto col sorriso dall'albergatrice, e scopre poi che questa ha il marito od il figlio sul cataletto, ma secondo un ancestrale codice della ospitalità ritiene dovere non turbare l'ospite); modello che sente all'opposto del culto del superuomo. Il semplice si sfoga con tutti, vuole narrare a tutti il suo strazio, scambia ogni moneta spicciola di parole di conforto per l'orò di cuori che battano con il .suo; il semplice è il cristiano che scorge in tutti i fratelli. 11 gentiluomo che tronca le parole di conforto a chi viene a fargli le condoglianze per il lutto recente e lo intrattiene invece sull'ultimo libro o sull'avvenimento politico, sente un po' la caricatura o la degradazione degli ultimi vittoriani, gli uomini dallo stile perfetto, i contemporanei di Oscar VVilde. Ma in quel perenne sorriso c'è anche e soprattutto la paura del dolore. Molti europei conoscitori della società nord-americana notano la legge sociale non scritta che v'impera: non parlare di morti, di malattie, di cose tristi. Sono queste le ombre che non si debbono evocare. Ma porsi la regola di non parlare di qualcosa equivale a confessare che è sempre presente, incombente, in un angolo della mente; che se ne ha paura. E la verità è che l'uomo dei nostri giorni è attaccato come non mai alla vita ed a ciò che può dare. Anche se religioso, ha paura della morte e teme altresì il dolore fisico, la decadenza delle sue facoltà, l'obnubilarsi della sua mente. I suoi padri avevano dinanzi a loro la prospettiva di una gamma ampissima di malattie, più o meno domate le une, più o meno combattibili le altre, solo una o due misteriose. Le due o tre misteriose o non combattibili sono rimaste quasi le sole; l'uomo d'oggi ha sempre presente due o tre nemici dal volto noto, al varco. E fanno più paura di una turba vaga. L'uomo d'oggi si è costruito un tipo di esistenza che sarebbe apparsa favolosa, dono di fate, a suoi antenati non remoti; e proprio da questo senso dell'alta quota raggiunta viene la paura del brusco troncamento dell'avventura. Ancora: i suoi padri atei pensavano che tutto sarebbe finito con la morte; i suoi nonni religiosi credevano in un paradiso non dissimile da quello di Dante: librarsi nell'acre luminoso, armonie di colori e di suoni, conversazioni con spiriti magni, scioglimento di problemi. L'uomo religioso contemporaneo ha fede, soprattutto nel Dio padre e nella sua misericordia; ma sa che il valico sarà ad un mondo di cui nulla può dirgli la sua esperienza, tutta formata nelle percezioni dei sensi, di cui non può avere l'intuizione. Per la sua serenità occorre una fede assai più forte di quella degli avi. II sorriso della iconografia contemporanea copre turbamenti ed ansie che non erano sotto le severe immagini degli uomini dell'ottocento. A. C. Jemolo

Persone citate: A. C. Jemolo, Cavour, Crispi, Depretis, Francesco I, Mazzini, Oscar Vvilde