Ritorno di poeti

Ritorno di poeti Ritorno di poeti Il primo di questi poeti ottocenteschi che son tornati ai nostri giorni, in ordine di ristampa, è Severino Ferrari. Ci sono volute due occasioni assai vicine fra loro: il cinquantenario della morte, la scorsa vigilia di Natale, e il centenario della nascita, questo 25 marzo. Severino professore e poeta; si riaprono le pagine di ricordi, bellissime, di Renato Serra e del Panzini e del Valgimigli, e un sereno lume di leggenda parrà diffondersi intorno, la leggenda della scuola carducciana. A tenerlo un po' in alto sopra i suoi compagni, basterebbe, più che l'amicizia particolare, e non priva di ombre, del Pascoli,' la predilezione che n'ebbe il Carducci, suo Maestro e Padre; basta per me il pianto sconsolato che ne fece, lui già con un piede nella, fossa, alla notizia che, con la mente ottenebrata, l'antico allievo da lui chiamato a succedergli nella "cattedra di cosi arduo fastigio, era morto nella clinica di Collegigliato. Al Ferrari il Maestro, che non lo fece mai con nessun altro discepolo, dedicò poesie, e delle sue più fini e terse. Severino vive ancor oggi nella luce di quell'onore. Il gentile Apollodoro accanto al vecchio Socrate, diceva ii Panzini. Ma vive anche per i versi che scrisse. Ed è male che l'antica promessa, fatta alla sua morte, dall'Albini e dal Pascoli, di metter su due volumi di cose sue, di prosa e poesia, con lettere e inediti, e anche giudizi del Maestro, non sia stata mantenuta, né ripresa da alcuno. Oggi dunque, di nuovo, non abbiamo che questa piccola scelta, bella certo, se pure un po' tradizionale, e con qualche mancanza che spiace; ma in degna edizione (Zanichelli) e con un'affettuosa prefazioncina, almeno, firmata a due mani, dal Valgimigli e dal Chiorboli. E' una poesia che ha eleganza e tenerezza come non ce n'è tanta altra, di quel tempo, intermediaria fra la carducciana e la pascoliana, ma con qualcosa che trattiene per sé sola, non ha preso in prestito e non ha ceduto altrui. Il Trompeo l'ha chiamato « poeta dei gigli », per via del fiore che cosi sovente offre ai suoi versi sostantivi e aggettivi, e ne ha discorso sottilmente com'egli usa. Ma non può bastare. Accanto all'amore per Biancofiore, cioè l'amore per l'antica poesia italiana, la popolare, e d'istinto e d'intenzione, è nel Ferrari un più umano amore, quello per la sposa. Severino, se non mi sbaglio, è in tutta la nostra letteratura in volgare, il solo trovatore dell'amore coniugale. Fu la sua novità più vera. Tutti gli amori familiari sono richiamati a quello e quasi s'inchinano a vezzeggiarlo. Degli stessi anni del Ferrari sono, press'a poco, il Satta e il Camerana, anche se di un'età, di una storia culturale non altrettanto chiare e definite. Il caso del Satta è' parso un'ingiustizia da vendicare; lo è parso in particolare nella sua patria, Nuoro e la Sardegna, dove il poeta nacque nel '67 e mori nel '14, dopo una vita onoratissima e infelice. Ma già al Pancrazi, lettore più moderno e di tanto equilibrio, anni addietro, e in sostanza nemmeno oggi al nuovo curatore di questi Canti, Mario Ciusa Romagna (per l'ed. Mondadori) la poesia di Sebastiano Satta è sembrata contenere una forza originale. Essa si muove nell'ambito di quella maggiore e diffusa e dominante gli spiriti del tempo, cioè del Carducci, del Pascoli e del D'Annunzio, e ne echeggia tutta. Di nuovo c'è quel suo mondo barbaricino, un mondo che stava per tramontare o tralignare, selvaggio, arcaico, passionale, cavalleresco; un motivo che nel Satta freme di continuo (con quelle rime di elee e selce che mandan scintille a ogni passo) ma che non lascia traccia profonda nella memoria poetica, perché l'originalità, come è ovvio, è sempre soltanto di forme e mai soltanto di contenuto; e le forme, come si è detto, il Satta le prendeva quasi fatalmente in prestito. Ma quando il prestito era la poesia popolare o popolaresca, il contatto riusciva più vivace e sanguigno; si vedano ad esempio Lo- sposo. Notte nel salto, Ditirambo di giovinezza, Ninnananna funebre, parti dell'£pitalamio barbaricino e certi ben rigirati ntuttos. Il Camerana si formò un po' prima del Ferrari e del Satta, ma il suo arrivo poetico è all'incirca dello stesso periodo, dall'82 in poi. fin quasi alla vigilia della volontaria morte, il 1905 (cinquantenario trascurato). Ma egli si maturò in un diverso clima storico e culturale, quello lombardo della Scapigliatura, prima, e poi, in un certo senso, quello piemontese letterario è pittorico; e perciò sfugge all'influsso degli ambienti bolognese e toscano. Né il Carducci, né il Pascoli, né il D'Annunzio gli danno avvii, gli propongono temi, suoni, metri. Il timbro della poesia del Camerana è di una schiettezza e spesso di una raffinatezza, anticipatrice di alcu ne movenze moderne, tale che ha rdvltcgibslacHanldlarpudccp«mMqtvcudmamiIiIpczarlsfgulsscslvcprAvstrtdemgigrlpFvpzmSa fermato 1 attenzione di giovani |critici scaltriti alle ultime espe- ;rienze, il Petrocchi e il Roma-1 ltasmi agitati, frementi, in lotta pe- rò. C'è in lui un mondo di fan- renne, che di continuo si riflette dall'animo nel paesaggio e viceversa. Ma quando lo stato febbrile della sua arte, la visionarietà turgida (pensate a un solo endecasillabo di questa fatta: Vertiginosamente colossale) si posano in concrete, adeguate misure, abbiamo versi stupendi, di suggestiva novità musicale, di originali accostamenti pittorici, anzi assai spesso traduzioni pittoriche. Sono Basilea, Chamonix, Helder, Mattutino, le poesie a Histolfi e a Dellcani, alcune delle Oropee: Addio! vedi, l'autunno arriva... Fu religione la sua per la Madonna nera di Oropa? Fu certo la divinità implorata dalla sua angoscia' (lo osservò già F. Neri); ma più un'immagine — e un paesaggio, direi quasi — che non un sentimento, e più la voce drammatica del suo tormento che la pace trovata. E c'è. qualcosa di idolatrico in quella fissa preghiera del poeta, e c'è nella « fosca Etiope dalle fulve chiome» più di Salammbò che della Madonna cristiana. Si torni dunque a rileggerlo, ora che la tanto desiderata riedizione dei suoi versi è proprio di questi giorni, curata, con alcune aggiunte e una penetrante analisi critica, dal Flora, e stampata elegantemente dal Garzanti. In un ricordo del Pastònchi, accanto al poeta magistrato Camerana, in mezzo a un piccolo iiiiMiiiimiiNiNiiiimiiiiiniimiiiitiiiiiMmiMii cenacolo biellese, appare, di sfuggita, un po' in ombra, un giovane poeta, Carlo Chiaves. Di lui si è sempre saputo poco, e, com'è noto, il suo nome' ha avuto fama un solo giorno, quello in cui il Borgese trovò l'ambiguo aggettivo « crepuscolare » per la poesia sua, e di Moretti e Martini. Il suo unico libretto, Sogno e ironia, del 1910, cercato dagli amatori dei minores di fine Ottocento e primo Novecento, lo ha ripubblicato ora Neri Pozza per il desiderio attento di Aldo Camerino. Siamo, già in un'altro tempo. La grande traccia della tradizione letteraria è assente, l'impegno del vate è ormai fuori luogo, il canto degl'ideali non trova materia, se non dell'immergersi nella penombra grigia. Arcadia del disinganno, del vuoto, del dramma immaginario e della sola cosciente ironia. Un segno della crisi incipiente. Ma era anche, a suo modo, un passo verso la discrezione e l'interiorizzazione lirica. Meno letterato, meno vigile del Gozzano, da cui pure deriva per vari accenti e motivi e artifici, il Chiaves ha, fra i crepuscolari più intimamente tali, una sua poesia.esigua, ma sincera di «dolcezza e favola insieme ». Che cosa mi piace di lui? quella malinconia futile, ma gentile? o l'argenteo grigio di Torino che s'intravede, si sente qua e là? Franco Anfaniceli! iiiiimiiiiiiiiinimm

Luoghi citati: Basilea, Nuoro, Sardegna, Torino