L'arida terra del Venezuela è troppo avara con i contadini di Paolo Monelli

L'arida terra del Venezuela è troppo avara con i contadini POSSIBILITÀ' DELLA NOSTRA EMIGRAZIONE AGRICOLA -— L'arida terra del Venezuela è troppo avara con i contadini Solo poche famiglie privilegiate riescono a vivere bene nelle aziende modello - Delusioni e miseria per i più - Avventure di un estroso italiano alpinista e geologo - Una temeraria spedizione e la scoperta della più ricca miniera di diamanti d'America - Prigioniero dei selvaggi nel cuore della foresta Soma, maggio. Qualcuno mi ha scritto per chiedermi quali siano le possibilità d'una emigrazione agricola nel Venezuela. Ho avufo un'esperienza bellissima e ingannevole, questo febbraio. Sono andato a Turén, una località nella grande piana centrale, una steppa gialla, con rari cespugli, ogni tanto ciuffi di giganteschi mango, dalle grandi corane tonde che riproducono sul terreno la forma dei tondi cumuli di nuvole nel cielo arsoj e qua e là la pianura si oscura d'una densa foresta sotto cui scorrono quasi invisibili i fiumi. A Turén, abbattendo la foresta per largo spazio, il Ministero venezolano dell'agricoltura ha creata una colonia agricola modello, con belle case per i contadini, edifici sontuosi per l'amministrazione, parcelle da quaranta e sessanta ettari di superficie. E qui ho trovato centoventi famiglie italiane; ci sono sei o settecento parcelle distribuite fra coloìii di venticinque nazionalità, dopo i venezolani il nucleo italiano è il più forte. Son qui da quattro o cinque anni; se la fanno bene, con braccianti indii e negri, e le macchine, una famiglia basta alla cultura senza ammazzarzi dal lavoro. Molti sono venuti qui da Latina, come Perlasco da Como, che ha già barattalo una parcella da 40 ettari con una di 70: come Abele Guion da Attimi? che mi parla friulano ed è venuto via da Latina perché « con sei figli ci stava troppo stretto ». Sono venuti per invito, il governo venezolano gli ha pagato il viaggio e anticipato il prezzo dei mobili e delle macchine. Altre famiglie italiane sono attese a Calabozo dove, nello sforzo di creare, una borghesia contadina, 'la colonia sarà ancor più lussuosa, con parcelle di eoo ettari per ogni famiglia (il 10 per cento a pascolo, il resto a coltivazione intensiva). Ma sono tentativi che costano un occhio della te¬ ■iiiiiniiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiitiiiiiiiiiiiiiiiii sta, e non possono essere moltiplicati; il terreno poi è ingrato e povero, ha bisogno di concime e opera assidua, il clima è snervante. Per questo ho detto che l'esperienza è ingannevole; l'emigrazione contadina qui è cosa aristocratica per pochi fortunati; nella migliore delle ipotesi l'Italia potrà collocare qui un centinaio di famiglie l'anno. Né conviene dedicarsi a quella agricoltura famigliare che si può fare nei pressi di Caracas, una famiglia che con le sue sole braccia coltiva un ettaro o due a ortaggi e a fiori; è una vita da cani, ohi ci fa un po' di soldi l'abbandona sùbito; è stata fino ad ora feudo dei portoghesi, i più poveri fra gli immigrati. Qualche volta quello spirito d'avventura di cui vi ho detto prende anche i pacifici coloni. Mi hanno narrato il caso della famiglia contadina italiana a cui avevano assegnato uno di quel poderi modello, gli avevano pagato il viaggio i mobili le macchine, due solidi giovanotti con mogli e figli, due vecchi in gamba, l'ideale per mandare avanti bene l'azienda. Dopo un anno i due giovanotti hanno piantato li tutto; l'uno ha trovato più conveniente andare a guidare autocarri, l'altro s'è messo a fare il dentista. Al ministero dell'agricoltura non ci si sono ancora rassegnati. Un bellissimo campione di emigrazione specializzata e avventurosa è il dottor Alfonso Vinci, geologo, etnologo, alpinista (ha scalato per primo alcune delle cime più ardue delle Ande), docente di scienze naturali all'università venezolana di Marida. Conosce come pochissimi altri l'interno del paese, ha esplorato la savana della Guatano, scoperse sei anni fa Urimàn, la più ricca miniera di diamanti d'America. Chi ha letto i miei articoli sui cercatori di diamanti ricorderà che parlavo ogni tanto del mio compagno; è il professor Vinci, quarantenne solido, quadra- iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiuiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii to, alpino bergamasco, ohe mi ha fatto conoscere i suoi umili compagni d'esplorazioni e d'avventure, e mi ha fatto capire come cercar diamanti sia una passione ed una malattia. Il cercatore deve inoltre sapere leggere nella natura, riconoscere la presenza dei preziosi cristalli da certi segni, l'acidità del terreno, la qualità della vegetazione, la forma delle rocce e delle montagne, il colore scuro delle acque dei fiumi. Faticosa vita, risalendo in piroghe instabili le rapide dei fiumi; quando era in cammino per recarsi a Urimàn gli si ribaltò la piroga con tutte le provviste, e dovette aspettare venti giorni che uno dei compagni con un indio e una barca di corteccia costruita sul luogo andasse a prender cibi ad un deposito preparato più a monte. Gli avevano lasciato il minimo per sostentarsi, e l'assenza si prolungò più del previsto; stava tutto il giorno immobile nell'amaca, si alzava solo per far cadere i germogli dal sommo delle palme e nutrirsene. Quando arrivarono i compagni si bevve tutta una lattina di birra calda e cadde svenuto. Ma poi, la felicità di scoprir la miniera inesauribile, soli, tre compagni e pochi indii, in dieci giorni'fecero una raccolta per centomila dollari. Ma la voce era- corsa per tutta la regione, arrivarono a migliaia minatori dalla Paragua, da el Casabe, da più lontano, come accorrono gli scarafaggi all'odor della carogna fresca; li sopraffecero, li travolsero, dovettero andarsene. Ora Alfonso Vinci ha pubblicato un libro (Samatari, Leonardo da Vinci editrice, Bari) ove racconta due sue spedizioni nel cuore della giungla tra il Venezuela e la Guaiana, in una regione mai esplorata dove vivono indii nudi e selvaggi, senza leggi, senza dio, forse gli esseri più arretrati del mondo, nomadi nel perpetuo crepuscolo della .foresta immensa e umida per procurarsi il cibo, bruchi, vermi butirrosi, lombrichi dalla carne rosea, favi di alveari selvatici, carne di serpenti di tapiro e di cinghiale, cuori di palma; gente di cui si conosceva solo vagamente l'esistenza, difesi dalla lontananza, dalle rapide dei fiumi, dalla rinomanza che si sono fatta presso gli indii più vicini alla civiltà di ferocia disumana; una ferocia di primitivi che non e altro che cieco istinto di difesa, il timore di essere uccisi, o che gli rapiscano le donne. E così Vinci ha conosciuto i samatari, uomini scimmie in perpetua guerra fra loro, per i quali il mondo è «un bosco oànza limiti, attraversato in tutti t sensi da fiumi e corsi di acqua d'ogni genere, la cui destinazione finale non è compresa e neppure pensata». Non conosco alcun libro, della recente letteratura narrativa o di viaggio, che possa avvincere tanto il lettore, scritto in uno stile semplice e insieme colorato da una persona ohe prende interesse a tutto, al linguaggio degli indigeni, alle pietre, ai riti, all'andamento dei fiumi, alle formiche, alle termiti (< le termiti sono un popolo a parte, proletario e teocra¬ tico, ohe non si accomuna alle sorelle formiche. Rappresentanti anonimi di una civiltà scientifica, non fanno intenzionalmente male a nessuno perché sperano di raggiungere l'ai di là mangiando legno vecchio. Buddisti fra le formiche; pungono leggermente quando vogliono avvertire ohe i loro scopi ultraterreni devono sempre avere la precedenza»), ai serpenti (< animale saggio e superiore che non ama la foresta umida, ma le savane piene di sole che si gode dall'orlo dei ruscelli, come noi godiamo il mare dalla riva. Sa mangiare una volta tanto e aspettare per mesi che gli capiti a tiro qualche sciocco animaletto. Nel frattempo si avvoltola di giorno all'ombra di qualche pianta o sotto una pietra e si distende al primo sole del mattino per asciugare in avvolgimenti voluttuosi la rugiada della notte»). Con poche parole sa evocare il ritrovato fascino della foresta eterna; e appena giunto con i compagni di spedizione ad un luogo sull'alto Paragua, donde inizierà il viaggio misterioso per ignoti cammini; e narra: « Dopo mangiato, presi il macete e me ne andai per il bosco, come si va alla sera a spasso per le strade o al caffé con amici. I miei amici Blllll1ll11ITIII1ll1lllllllllll1llltIlllllllIlllIlll11III erano i grandi alberi, che dopo molto tempo tornavo a vedere e a sentire nella loro immobile intimità. Il frastuono delle cascate di Uràima era come tutti i frastuoni e i fiumi tropicali di tutti i miei tempi', e gli alberi erano gli stessi alberi. E il mio amoro per loro era lo stesso amore, Antimo, profondo e sottilmente malinconico, come sempre sul punto di perdersi in nostalgia». Cercando i samatari nel fondo della foresta, se li trovò addosso improvvisamente ostili e feroci. € Dagli alberi erano discesi uomini-scimmia che, accorsi al centro dell'accampamento, si erano radunati in un tumulto dal quale immediatamente si iniziò una corsa di armati verso di noi, seguiti dalle donne che tenevano le frecce di scorta ed urlavano più degli uomini. Al nostro apparire di dietro le schiene sudice degli accompagnatori l'urlo ebbe un sussulto che lo trasformò di nuovo, spezzandolo in cento grida individuali di ogni tonalità. E quando la nostra colonna si arrestò, ci trovammo circondati da una umanità sudicia, maleodorante, che ci assaliva d'ogni parte con impeto. I pantaloni mi furono strappati di dosso e sparirono fra la selva di gambe, mentre i più accaniti mi andavano IfllllIllIllllllllIIIItllll1IMIIIllllllllll1IMilfMIIll1)IMI maneggiando come fossi un pesce che vorrebbe guizzar via. 1 più fortunati, che si facevano largo nella ressa, si attaccavano alla barba e ai peli del petto e ne strappavano ciuffi che mostravano trionfanti agli altri meno fortunati, ai quali li lasciavano tornando a mietere sulla nostra pelle. (...) Alcuni si gettavano, ferocemente su di me e si attaccavano ringhiando alla barba come volessero strangolarmi o strapparmi la pelle di dosso >. Se volete sapere come l'autore, dopo avere temuto di essere ucciso da frecce avvelenate o lasciato morire di fame, divenne ospite accetto dei samatari e promosso a stregone; e le sue altre avventure con gli indii scirisdana nella selva brasiliana, comperate il libro. Avrete ristoro una volta tanto dalla sudicetta e morbosetta letteratura contemporanea; se non vi prenderà una disperata nostalgia dei neri fiumi, degli altipiani densi di cose morte e di vita prepotente, della tiepida solitudine, della vastità sonora della foresta, del sapore della terra avvolta dalle millenarie radici degli alberi, di tutto quel mondo « più grande della vita di un uomo». Paolo Monelli IIllllllll1IIIIMIIIIIlllIlllI lllllllIlIlllltlirMI

Persone citate: Abele Guion, Alfonso Vinci, Attimi, Guaiana, Leonardo Da Vinci