Dite la vostra, che ho detto la mia

Dite la vostra, che ho detto la mia Dite la vostra, che ho detto la mia c Stilisti della forza di chi scrisse i libri de oratore e l'epistola de arte poetica » : se lo scrivente, in questa frase, intèndeva di dare al chi valore plurale, doveva usare anche il verbo al plurale.* Di fatto, egli ha soppresso e sottinteso la ripetizione del di chi scrisse, nella fiducia assiomatica che ogni lettore distingue un Cicerone e un Orazio autori di tali più che famose opere. Siccome scriveva, su questo stesso giornale, in lode della logica sintattica del latino classico, se ne deduce che per suo conto si prende non lievi confidenze strutturali con 'i logica del discorso. Ma non cito la frase per difenderla né per condannarla, bensì soltanto per cogliere l'occasione che mi porge un insigne studioso della storia antica politica e civile, il quale mi ha detto che avrei fatto bene a mettere nel numero dei grandi esemplari stilistici della « letteratura colta e riflessiva, cosciente e critica » di Roma antica, fra quei possenti logici dello scrivere, anche chi scrisse i Commentari. Sicuramente Giulio Cesare, scrittore, lo merita per valore educativo esemplare-, ed essere stato anche, e tale e tanto, scrittore, è uno fra gli elementi costitutivi della sua grandezza e compiutezza. Ma nell'articolo che mi feci lecito di scrivere sulla « liberalità » educativa del latino, mi limitai a quei due in quanto le opere in cui danno precetti di stile sono esempi di stile sommi: in quanto stilisti e precettisti in una. A proposito di Cesare e della tempesta di duemila anni fa, stilla quale mi son permesso di fare, ricorrendo il bimillenario, una specie di variazione capricciosa, un altro egregio studioso mi ha fatto l'onore di ricordarmi che Virgilio, nel celebrar l'arcano dei presagi, moniti, castighi, vaticinii. e segni della fine e dell'assunzione di Cesare ai superi, del fato di lui umano e sovrumano, fu preceduto da Orazio, seconda ode del libro primo, per il trionfo di Ottaviano su Cleopatra: ]am satis terris, famosissima. Sono, del resto, simboli e motivi e luoghi dell'ideologia politico-religiosa e della pubblicistica cesarea, della quale ero ben lontano dal voler dare, non dico notizia, ma neanche cenno adeguato. Fatto è che ad Orazio non pensai, dico la cosa come sta, perché, senza mettere minimamente in questione il vigore, nel più ampio senso, politico di Orazio né la solenne e bronzea magnificenza delle sue celebrazioni rituali, mi pare che un senso religioso spiri e respiri e canti piuttosto nella poesia, anche civile e politica, di Virgilio: studiosissima e dotta e meditata, lo so, ma ingenua di una religiosa ingenuità, che in Orazio non so sentire, non dico malgrado ma anzi proprio per la sua vigoria d'argomenti e magnificenza di celebrazioni cerimoniali. Se non m'inganno, Virgilio non erige monumenti né propone riti e celebrazioni, o se lo fa, vi esprime pur sempre una sensibile pietà, e vorrei dir tenerezza religiosa, con un sentimento trepido e vivo e pio del mistero, che ha potuto farlo assumere nella tradizione cristiana a profeta ignaro del mondo rinnovato, dell'umanità redenta. Del resto, Virgilio è, tipicamente, il poeta delle figure e parole trascendenti in significazione poetica il loro significato letterale, come nel famoso sunt lacriniae rerum. Insomma, e all'ingrosso, direi Orazio testa forte, Virgilio animo sensibile: motivi che valgono solo per una variazione fantastica; ma non pretendevo di far altro. Io poi ritengo che chi non capisca Virgilio non capisca la poesia: ossia, non capisca nulla. Allora, come la mettiamo con Platone, il quale, lo sappiamo, esclude dalla sua repubblica i poeti? Io la metterai cosi: che Platone li escludeva non perché non li capisse, ma perché li capiva troppo ed era egli stesso poeta di tanto genio, com'egli è, per esempio sommo fra tanti altri, nella morte di Socrate. Del quale Socrate, il medesimo studioso mi ha ricordata la cura di morire con superiore dignità e decenza umana e filosofica e rituale, con purificata serenità d'atti e parole, di gesti e d'animo. Sicché la dignità di Cesare morente ravvolto nella toga, e, cito parole dello studioso, « storicamente tanto più attendibile, quanto meno è da leggervi una " originalità " di lui Cesare ». Tale decoro, soggiunge, era « portato inviolabile della tradizione, ed effetto educativo e suggestione esemplare della tragedia gret ». Sta bene; ma qui dirò la mia. Effetto esemplare, osservanza di una tradizione educativa, non diminuiscono, anzi accrescono, sanciscono, avvalorano significato e forza dei gesti ed atti e motti esemplari La quale e il quale, significato e forza, non stanno nella originalità della trovata ma nell'adeguate al gesto e al rito tradizionali, una som- ma, quanto sia maggiore, di fat- ti e di sentimenti che l'indivi- duo in quelli esprime e compendia e perfeziona. Nel caso di colui che, cessando difesa o •schermo dagli stiletti dei cesaricidi, si copri della toga, insegna della civica dignità romana, il gesto significò di sua mano sancita la consumazione del fato di Cesare. Vi sublimò la nudità del fatto che il padrone, come dice uno storico, della terra e del mare, compisse il corso dei suoi giorni mortali in un abbandono, in una solitudine, che trascese la realtà storica, di cui un Cesare ebbe dominio e potenza quali furono i suoi. Soltanto tale abbandono era pari alla sua grandezza; e col gesto di sancire tale solitudine, egli trascese anche la sua grandezza. L'« originalità » non fu del gesto e non ce la mise lui: ce la mise la storia ed è della storia. Dopo di che non sarebbe lecito, ma mi permetto di ricordarmi che avrei voluto scrivere una tragedia dei tre schiavi i quali dalla Curia di Pompeo, quel giorno, portarono a casa Cesare morto per le strade di Roma interrorita: altra sorta, umile in quei tre umili, arcana in tal città, di prodigio, in cui maturava il fato dell'Urbe, e, intanto, si consumava già il destino dei cesa ricidi asserragliati nella rocca capitolina. Credevo, e scrissi nel mio articolo, che lo portarono alla casa famigliare sull'Esquilino, ma non è esatto. In quanto Pontifex, egli aveva dimora in Foro, ma questo particolare non sarebbe di gran rilievo agli effetti della immaginata tragedia: per contro, non manca di peso un'altra rettifica. Ritenevo che quel trasporto fosse stato accompagnato dalle nenie funebri, sul suo passaggio, dei giudei e degli orientali residenti in Roma: ed esse ci furono, ma tre giorni dopo, ai funerali di Cesare. Ora, tutti sanno che in quei tre giorni era maturato il destino, non che di Bruto e dei tirannicidi e d'Antonio, di Roma; e che la sollevazione del popolo apriva la tragedia storica della quale egli fu, morto, il protagonista, come ha visto Shakespeare grandemente. Dunque, quelle nenie e quei suoni funebri, piuttosto che di vaticinio, sanno di accorta presa di posizione politica in favore del partito già pre< dominante. Così va il mondo. A me, se arrivassi a comporre quella tragedia, bisognerebbe dunque abbandonare l'accompagnamento di tali nenie e musi' che lamentevoli, le quali, posti- cipate di tre giorni, di quei tre giorni pieni e risolutivi di - un tanto arcano, non dicono più gran cosa. Però, il particolare della vista delle ferite, e dei pianti e gemiti di quanti guatavano dalle case al passaggio, è storico antico. Avranno lamentato, tutti quanti, cittadini e forestieri, liberi e schiavi, le paure e le sventure che quella morte prometteva, ma insomma era pietà, dice uno storico, di colui che aveva avuti onori divini ed era ridotto a tale squallore. Si può immaginare, e neanche con grande spesa di fantasia, che suoni e canti rituali degli orientali di Roma, cominciasser già al chiuso, dentro le case; anzi più sinceri e più angosciati, quel primo dei tre giorni fatali, al passar di quelle esequie sublimi proprio per il loro squallore, in quella sospensione tremenda del destino di Roma. La mia idea tragica, sarebbe che nessuno di quei tre portatori possa poi esser finito senza tragedia, ma ars longa, vita brevis; e ci vorrebbero almen tre vite per arrivare a dar corpo agli estri della fantasia: e alla fine della terza, si sarebbe daccapo, come nelle favole. Sicché, dite la vostra, che ho detto la mia. Riccardo Bacchelli

Persone citate: Esquilino, Fatto, Platone, Riccardo Bacchelli, Shakespeare, Socrate

Luoghi citati: Ottaviano, Roma, Urbe