Traduzioni e poesia

Traduzioni e poesia Traduzioni e poesia Tutti quelli che bene o male tengono la penna in mano sono stati almeno una volta traduttori. Tutti o quasi tutti hanno messo le mani in un romanzo-fiume o in un raccontino, o in una lirica, o in un « giornale intimo » per volgerli dal linguaggio straniero nel nostro. E chi non si compiace nel vedere le vetrine dei librai e le bancarelle affollate di volumi dal russo, dall'inglese, dal cinese o dallo spagnolo ridotti in italiano? E quante idee innovatrici, quale nuova freschezza e fertilità, si dice, ne vengono alla nostra letteratura, sempre un po' ristretta, o provinciale, che appare sempre paesana, dal Machiavelli che giuocava a tricchetrac all'osteria, al Carducci con quei suoi amici professori, e le passeggiatine sotto i portici di Bologna. Ma vediamo un po';' queste traduzioni, queste immagini e voci di genti lontane ed estranee, diverse nel tempo e nello spazio, che cosa ci recano, veramente, che cosa trasportano in noi? , Trasportano soprattutto « cose ». Ma che cos'è la < cosa » (si perdoni il bisticcio) di uno scrittore? E' la poesia, è l'arte. Nulla v'è che possa interessare l'artista, il poeta, quanto l'immagine, il linguaggio, il ritmo, il canto, fantasia che nasce, si esprime, cresce e si espande e svetta nei colori e nel suono della parola insostituibile. La traduzione sostituisce, il tradurre è un sostituire perenne, e le cose che le traduzioni trasportano di paese in paese, di popolo in popolo, non sono mai o quasi mai, o con tanta rarità da sembrare miracolo, le cose degli artisti e dei poeti, non sono propriamente l'arte e la poesia, sono le cose come le intende l'illetterato, il non artista, il non poeta; sono usanze, costumi, psicologie, filosofie, rivelazioni e curiosità sociali, caratteristiche geografiche, etniche, religiose, e problemi e pensieri e sofismi, non sono « quella » fantasia, c quel » linguaggio antico, originale, genuino, aspro e ridente, interno e lieve, nodoso e tenero, ch'è il linguaggio vero d'ogni vera letteratura, il suo genio misterioso. Gli studi di letteratura comparata affascinano, dovrebbero affascinare, non solo gli eruditi ma anche, e soprattutto i poeti e gli scrittori, proprio per il gusto di ritrovare e raffrontare i testi nel la loro genuinità, in quel che di primitiro, 5 poi di elaborato e cesellato e artistico, che, pur riecheggiando o variando motivi comuni, rimane « unico », con un respiro ampio e una gamma di voci che fanno vibrare, per segreto accordo, le voci lontane e affini di altri linguaggi e di altre poesie. Da così felici incontri, e in occasioni più che felici, meravigliose, può scappar fuori una poesia, una pagina che è tradu zione e non lo è, che è vetusta e giovine, arcaica e in boccio, una poesia che rinasce in una lingua nuova. Il vecchio e grande Carducci ebbe di questi mo> menti: Sabato sera In fin di settimana Gaietta e Orior sua sorella germana Van per mano a bagnarsi a la lontana. Soffi 11 vento, crolli la rama: Dolce dorme chi ben s'ama. Che è romanza tratta dal francese antico, e, passata nel fraseggio toscano, ha acquistato una verdezza, un incanto di accenti, una lucentezza e una fragranza che spirano aria e musica e melodia al di là di ogni tempo, e pure sono esattamente del tempo ben noto e inconfondibile, erudito e romantico, il tempo del Carducci. (E altri maestri vorremmo citare; che subito si pensa allo Sterne di Foscolo, al Pia tone di Acri, alla Saffo di Valgimigli, e ognuno ricordi da sé) Ma proprio queste eccezioni fanno comprendere l'inanità di altre traduzioni, le consuete traduzioni che con troppa baldanza vorreb bero far « conoscere » poemi di altre genti, prose d'arte ardue, e di una spiritualità per noi inedita. Sicché di facile in facile traduzione sempre più si divulga un linguaggio anodino e anonimo, sciatto e buono a tutto, che è il linguaggio inevitabile della maggior parte dei traduttori. Nel la bizzarra narrativa d'oggi, e nella lirica e nel dramma, si patisce così di una genericità di discorso, di lingua, di eloquio, che sfio ra il malinconico esperanto. Linguaggio che non è certo italiano e non è neppure inglese o germanico, francese o slavo, ma qualcosa di svaporante, di grigio, senza suono, senza nerbo, senza virtù. Ma vedete un po' se vai la pena di aver letto una lirica in più, una paginetta di più di Rilke o di Joyce, se poi in quella lettura ingannatrice si è perso o si vada perdendo il gusto vivo, il piacere acre, forte gagliardo, la voluttà fine e stu penda dell'arte integra e intera paziente e accorta, che ascolta ogni battito di un verso, ogni tono e sospiro di un accento, ogni fato delle parole, e scorge le ombre e le luci di una giacitura, sunstDogtlrlmrlclsipadnpdclg(I sostantivo o aggettivo, e come un verbo si snoda o si innerva nel-periodo breve o lento, e come si esalta l'immagine nell'alta vertigine di un discorso sovrano, Dante o Shakespeare, Foscolo o Racine (non tradotti). Pare grammatica o rettorica o pedanteria o preziosità: e invece è l'arte, quella che i grandi seppero .e praticarono, da Orazio all'Ariosto, dal Petrarca al Mallarmé. Provatevi a tradurli, davvero, per favore, ognuno capirà alla prova che cos'è poesia. L'eccelsa, inalberata terzina di Dante, l'ottava ariostesca, l'ode di Ronsard,' il sonetto di Shakespeare, il canto leopardiano sono sempre miracoli d'ispirazione e di arte. E chi non sa l'arte, chi non distingue il linguaggio dell'arte, neppure sa e intende la poesia pura e la-poesia grande: né può dire di avere incontrato sul suo cammino, veramente, in tutta la loro sublimità di fantasmi, Antigone, Farinata, Amleto. Ma ritorniamo a più modesto (■■IlItllllIIIIIIIIItlIIilItlIflllIllIIJIlfltlllllIlirilMIfldmentrfiurtmvngtbldsedpvmpncei flItlllillllIllllllllllllIIIIIITIIIIllIIIIIIIIIIITIIIflIlIdiscorso, adatto a noi, alla nostra misura di cronisti. Nella sterilità e confusione letteraria di oggi, nella quale sono molti, forse troppi gli stimoli idealistici e filosofici, si. potrebbe rivolgere un invito ai giovani che può parere strambo, e magari inopportuno e anti-culturale. Arrischiamolo tuttavia. Restringano i^j-jvani le loro letture; leggano meno. In estensione, s'intende; e leggano meglio, in profondità. Tutte quelle traduzioni, mio Dio; va benissimo americani, russi, e quelli dell'Oceania e quelli dell'Islanda, ma leggano e rileggano i maestri dell'Italia antica e moderna, e ritrovino, i cari giovani pieni di curiosità, ritrovino in quella prosa remota o vicina, in quei versi, il risentimento e il piglio misterioso e profondo di chi seppe esprimersi intero, nella pienezza della parola esatta, nel compatto fulgore di una fantasia e di un linguaggio nativamente, inestricabilmente commisti. Francesco Bemardelli

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