Erasmo e Lutero di Luigi Salvatorelli

Erasmo e Lutero Erasmo e Lutero Il .connotato precipuo e più alto di Erasmo è il senso di umanità. Umanità e non semplicemente umanesimo: la coltura classica e gli ideali letterari si sono mutati in lui in coscienza morale. In un'epoca di .conflitti e di guerre politiche e religiose Erasmo predicò pace e conciliazione nell'uno e nell'altro campo. Ciò si vide particolarmente nel grande contrasto tra cattolicismo e protestantesimo ai cui inizi egli assistette, dapprima benevolo per Lutero, indi in polemica con lui. ma sino alla fine della sua vita ben risoluto a non schierarsi in guerra contro una delle parti contendenti; risoluto anche a rimanere in grembo alla vecchia Chiesa, ma al tempo stesso desideroso che si trovasse una conciliazione, un modus vivendi con la corrente nuova. « Non naviga infelicemente colui che tiene la rotta di mezzo fra due diversi mali », scrive egli nel 1526. I due diversi mali erano da una parte la degenerazione ecclesiastica, dall'altra lo scisma luterano. Per essersi voluto tenere in questa via di mezzo, egli finì per riuscir discaro agli uni e agli altri; e se per Lutero e per i protestanti più zelanti divenne un oggetto di abbominazione, la Controriforma condannò buona parte dei suoi scritti e gli rimproverò di avere allevato in grembo l'eresia. Ma è anche vero, come constata lo Huizinga, che egli influì tanto sul protestantesimo quanto sul cattolicismo: « alla ricostruzione della Chiesa cattolica e alla fondazione delle Chiese evangeliche non sono legati solo i nomi di Loyola e di Lutero. Vi hanno avuto parte anche figure di moderati, di mediatori, di conciliatori, come Sadoleto da una parte, Melantone dall'altra, ambedue molto affini ad Erasmo per cui nutrivano simpatia. I tentativi, tante volte ripetuti e condannati infine al fallimento, di giungere a un compromesso nel grande conflitto re ligioso provennero in gran parte dallo spirito di Erasmo ». Il compromesso nel campo dommatico-ecclesiastico non c'è stato, e non è neppure in vista: < per questo lato si può parlare con lo Huizinga di fallimento erasmiano. Ma chi si sognerebbe di dire che le relazioni morali fra cattolici e protestanti siano oggi le medesime che nel secolo XVI? Chi non sa — e chi pensa a meravigliarsene — che oggi cattolici e protestanti con vivono pacificamente insieme e collaborano di fatto, anche quando non formalmente, all'educazione morale dell'umanità? Se su tutto questo avesse riflettuto Paul Joachimsen (La Riforma ed. italiana di Neri Pozza), non se la sarebbe sbrigata così semplicemente della religione di Erasmo, dichiarandola utopistica. Queste considerazioni possono aprirci la strada a una rivalutazione della polemica erasmiana contro Lutero, che si ha troppa tendenza a considerare come una manifestazione occasionale, un espediente temporaneo, di carattere prevalentemente, per 'non dire unicamente personale. Erasmo — opinano i più — si trovava premuto da Roma (con la quale non aveva nessuna voglia di rompere) a dichiararsi formalmente contro Lutero; già condannato dalla Bolla di Leone X; e sentiva il bisogno -di far tacere, o almeno di neutralizzare, gli attacchi ora violenti, ora insidiosi dei teologi scolastici e monastici, cui non pareva il vero di rifarsi contro di lui, che da un quarto di secolo li aveva bistrattati con le sue censure e le sue beffe, additandolo come primo maestro di Lutero. Al tempo stesso, non voleva né sconfessare le opinioni professate in tutto quel tempo, né impegnarsi a fondo nella lotta, lui uomo amante della pace e della tranquillità. Ricorse, quindi, all'espediente di confutare Lutero sopra una questione — il libero arbitrio — che poteva apparire filosofica più che teologica, razionale piuttosto che religiosa, e che in ogni modo non toccava i punti più scottanti: indù Igei ■ ze, primato romano, e simili. Si capisce che, con questo modo di vedere, Stefano Zweig nel suo bel libretto su Erasmo (pubblicato fra noi nei «Quaderni della Medusa » del Mondadori) abbia imputato il contegno di Erasmo rispetto a Lutero, e alla Riforma in generale, di timidezza e di passività. Assai meno svalutativo, e anzi sostanzialmente equo, è stato più di recente Roberto Cessi nella sua monografia, solidamente impiantata è svolta, su Martin Lutero (Einaudi). Il Cessi riconosce espressamente che « il libello erasmiano era il logico sviluppo dialettico della sua impostazione filosofica ». E tuttavia parla, a proposito della dottrina erasmiana conciliante il rapporto fra grazia e libertà, di « artificiosa conciliazione meccanica esteriore ». Più recentemente ancora, ma sempre in Italia, Siro Attilio Nulli, in un libro (Erasmo e il Rinascimento) folto di fatti, testi e discussioni, e perciò degnissimo di studio — anche se si possa trovarvi difetto di organicità e di lucidità etpositiva — ha riconosciuto (ed è molto, anzi il principale) «stcqmsttascdmitcpetmssesddscssdtcmfvrnbt«tncdr—ècltzcs—ld i e e e o n i . o a «l'importanza storica e il valore sub specie aeternitatis » del contrasto Erasmo-Lutero. E ha concluso, giustamente — contro quell'apprezza ncnto prevalentemente opportunistico a cui ci siamo riferiti sopra: «combattendo Lutero, sia pure senza entusiasmo (dato che con Lutero aveva avuto in comune una fase della - lotta, quella negativa, contro la Scolastica e gli abusi del Clero e della Curia di Roma), Erasmo non faceva affatto il doppio gioco, e non si metteva al servizio di nessuno ». Al che si può aggiungere che il punto affrontato da Erasmo non era affatto n.irginale ma centrale, non solo per lui, Erasmo, ma per Lutero medesimo. Per approfondire la comprensione del rapporto Lutero-Erasmo, la lettura migliore è Erasme et l'Italie, del massimo erasmista vivente, Augustin Renaudet. Il libro dà più, molto più di quel che il titolo promette: si tratta di una compiuta, particolareggiata monografia su Erasmo, abbondantissima di riassunti e citazioni testuali (con i debiti, precisi rinvìi), e che tuttavia si legge senza difficoltà, e con interesse sempre vivo, anzi man mano crescente sino in fondo. Si potrebbe solo osservare che le linee direttive della ricostruzione spirituale erasmiana non siano state segnate e ribadite con tutta quella incisività che sarebbe stata adatta a far « digerire » a tutti la felice interpretazione e ricostruzione renaudetiana. E' forse questo il primo libro che mette in piena luce — gradualmente, facendo come girare l'immagine da tutte le parti — la spiritualità erasmiana. Ed è, per ciò stesso, un contributo capitale alla conoscenza dell'umanesimo e del Rinascimento, in se stessi e nella loro relazione con la Riforma e con la civiltà moderna. Qualsiasi dubbio sulla religiosità — vera, intrinseca, profonda — del Rinascimento, dopo la lettura attenta di questo libro, dovrebbe svanire. La religiosità di Erasmo è qui documentata, illuminata, inquadrata in un vasto mondo spirituale • che abbraccia gli italiani Ficino e Pico, il francese Lefèvre d'Etaples, gli inglesi Colet e Moro: e se ne nominano solo alcuni. Al tempo stesso, codesta religiosità risulta tale che ogni tentativo di rappresentarla come una semplice continuazione dell'ortodossia medievale, o come un puro precedente della Controriforma, diviene impossibile. Il Renaudet e tutti gli altri studiosi più recenti dello spiritualismo rinascimentale (fra noi occorre oggi menzionare in prima linea il Garin) ci forniscono — se non m'inganno — gli elementi per collocare la religiosità del Rinascimento al suo vero posto: e cioè, al di là della Riforma. Chi ha scritto, come hr ha fatto Erasmo: «Che altro è la filosofia di Cristo, che Egli chiama rinascita, se non l'instaurazione della natura bene creata? »; chi ha affermato che codesta « rinascita » è secondo la vera e naturale armonia dei saggi antichi; chi fra questi saggi antichi precursori del Cristo comprende espressamente anche gli Epicurei, da buon discepoli di Lorenzo Valla (per cui va' menzionato il buono studio recentissimo di Franco Gaeta, L. V. Filologia e storia nell'umanesimo italiano, edito dall'Istituto storico italiano di Napoli): costui, evidentemente, è un precursore della « religione naturale » del Settecento: con un po' meno di razionalismo del Settecento, e un po' più di sentimento religioso: più precisamente, di sentimento mistico e comunitario della religione. Erasmo non aderì a Lutero, non si staccò da Roma perché non trovò in quello un vero superamento di questa. Trovò, anzi, che la sua azione rischiava di raddoppiare il giogo, gravante sui fedeli a danno della « libertà cristiana », proclamata da S. Paolo nell'Epistola ai Galati. Erasmo confermava i gravi difetti da lui denunziati, già tanti anni prima, nella vecchia Chiesa; ma diceva (proprio in uno scritto polemico diretto a Lutero, dopo quello principale sul libero arbitrio): «Sopporto (fero) questa Chiesa finché non ne veda una migliore ». Luigi Salvatorelli

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