L'ubriaco

L'ubriaco L'ubriaco Non pioveva, ma pareva che piovesse, perché l'acciottolato era lucido d'acqua e l'aria nebbiosa, bagnata, senza gocce. Le luci al neon delle botteghe ancora aperte si specchiavano sui marciapiedi e Je mie scarpe si adagiavano su qualche bassa pozzanghera. Ho quasi settantanni, ma talvolta, poiché sono ancora forte, mi chiamano a scaricare casse e ceste al mercato, ò in qualche magazzino. Mi dirigevo con passo stanco verso casa. Non m'era capitato mai nel cuore un sentimento sincero come quello, nemmeno quando ero emigrato in Francia : il sentimento della tristezza e della solitudine. Mi pareva, improvvisamente, di non aver mai conosciuto nessuno al mondo, di non aver mai amato nessuno, e che nessuno avesse mai amato me. Erano l'umidità e il grigio della sera a darmi quelle sensazioni da gente che ha studiato, da gente fine, non certo da persona grossolana come io sono; erano la sera buia, il rumore strano delle ruote d'auto sul bagnato, i piedi doloranti, il pensiero di dover salire sei piani di scale per arrivare a casa, il pensiero di trovare lei spettinata nel letto sistemato in cucina, il pensiero della finestra bassa sotto ai tetti riparata da un vetro rotto e da una tenda che il vento smuove, la poca luce, l'odore di forfora e di cose invecchiate nell'aria rancida. Poco male. Trovai inutile il rammarico perché la vita era alla fine, e quando nessun mercato avesse avuto più bisogno di me, io e lei saremmo finiti al ricovero, in padiglioni separati e lontani. Attraversai la grande piazza e l'umidità mi veniva tutta sul volto, fredda, leggera. Ma perché quel sentimento della tristezza e della solitudine m'aveva invaso cosi d'improvviso, senza un avvertimento, senza una causa? E perché non^m'era venuto mai anni prima, .in tempo perché provvedessi a voler più bene e a farmene volere? Mi sembrava d'essere un'signore, con quel bel sentimento triste, e capivo che se l'avessi tenuto ben bene entro il petto, da un momento all'altro avrei potuto piangere, e allora mi sarei liberato di tutti i veleni, di tutta la miseria, e ■arci rimasto tutto pulito, tutto nuovo, dentro, tutto leggero, tutl to aria. All'angolo della strada vidi un cane. Era bagnato e spaurito. Un cane piccolo, indescrivibile, bianco-sporco con qualche chiazza rossiccia, con la lunga coda e le lunghe orecchie penzolanti. Gli feci il verso che s'usa con gli animali per chiamarli, come lo schiocco d'un bacio. Mi guardò rizzando le orecchie e mi venne incontro. Aveva uno spago legato al còllo e una piaga leggera sulla schiena. Una piaga da niente. Mi parve anzi una bella piaga. Scodinzolava. « Dove vai, cialtrone, a quest'ora? », io gli dissi con tono scherzoso, tanto per dir qualcosa e tirar via, e lui, come avesse inteso un buon complimento, si fece invece allegro e saltò due o tre vòlte sul marciapiede. Continuai a camminare e.lui mi venne dietro. Un po' dietro e un po' davanti, i Da dove salti fuori, lazzarone », io gli dicevo sempre con voce buona, ed egli ogni volta balzava di gioia e pareva che da sempre io fossi stato il suo padrone. Era simpatico, allegro, nonostante la sua povertà e le sue piaghe; sternutiva e forse aveva fame. Quando giunsi davanti al buio del portone, non m'aveva ancora abbandonato. Forse pensava che io possedessi una casa calda e lussuosa, giacché i cani non distinguono mai se noi uomini siamo gente ricca o povera, se siamo brutti, belli o storpi. Ci amano se lo meritiamo, e basta. Non feci nulla per portarlo a casa: mi seguì. Salii lentamente i sei piani di scale, ed egli che mi precedeva si fermava ad attendermi sui pianerottoli, scrollandosi di dosso l'umido. Avevo paura che abbaiasse e che disturbasse gli inquilini, tutta brava gente: un impiegato al comune, un tabaccaio, una signora russa del 1917, e anche un dottore : con due o tre stanze, mentre la mia casa è invece una cucina che serve a tutto, in soffitta. Non abbiamo neppure il campanello. Battei tre volte. Venne ad aprirmi lei, mezzo vestita e con indosso la maglia rattoppata ai gomiti, e i capelli gialli. Appena vide il cane divenne rossa in volto e s'adirò subito. Mi disse con la solita voce villana e rauca che non bastava che mi ubriacassi e che spendessi in vino le duemila lire della pensione e quanto guadagnavo col facchinaggio, ma che ora volevo portarmi in casa anche i cani bastardi affamati e pieni di pulci e di lebbra. Non lasciò nemmeno che le spiegassi che si trattava di un cane povero come noi, abbandonato, senza parenti. Ella mi disse invece che con il cane non sarei mai mai mai en¬ tmQcsttavcdnzegmmc«upmrc«sasseC , a trato. Che andassi pure a dormire sotto i ponti o sui prati. Chiuse la porta, sbattendola. Quel bel sentimento nato nel cuore poco prima, era come svanito, ma mi aveva lasciato tranquillo, con una voglia di sottomissione mai provata. Sedetti al buio sui gradini di pietra davanti alla porta; ero stanco, stanco, ma mi sembrava di star seduto sul soffice. Il cane mi venne sulle ginocchia, e lo accarezzai, senza toccargli le piaghe. Si era arrotolato. Provai a fare un gioco, per indovinare il suo' nome, se l'avesse avuto: lo chiamai sottovoce prima con paròle che contenessero una « 1 », come « blìch », « flich »; poi parole con una « ò », come « ricò », « pipò »; ma il cagnolino non si muoveva; finalmente trovai che rizzava le orecchie quando dicevo « trùch »; quello, con la « ù », doveva essere all'incirca il suo nome. E così, senza cena, ci addormentammo tutte due. Non so mai. di notte, che ora sia; certo la strada era silenziosa. Mi svegliai per il gran freddo e per il gran tremare che faceva il cane sulle mie ginocchia. Me lo infilai dentro la mantella. Continuava a tremare. Me lo infilai anche sotto la giacchetta. Forse tremava per la fame, più che per il freddo. Allora risolsi di battere ancora alla porta di casa, perché in casa da mangiare doveva essercene. Il cane tremava sempre di più, come fosse stato preso dal convulso. Picchiai ancora alla porta, con i pugni, ma non forte forte, perché gli inquilini non pensassero che fossi ubriaco. Lei non apriva. Mi tolsi la mantella e vi avvolsi dentro il cane, che tremava da disperato Lo chiamai per nome. Dicevo : i Trùch. Trùch, non fare il commediante ». Ma lui tremava e basta. Lo deposi sul pianerottolo e tornai a picchiare alla porta con più insistenza: «Apri — dicevo —, apri. Apri se non vuoi che ti strozzi ». Sono parole che si dicono. Il cane tremava sempre, e sapevo, capivo, che ci voleva un po', di calore," e latte, pane, minestra, per salvarlo, Dio buono. Allora provai a spingere la porta con la spalla. Alla quarta spallata, la, porta ; cedette. Ecco come fu. Lei mi venne incontro, credo con la paletta del carbone, ma io le afferrai il braccio. Lottammo un po', nel buio. E lei cadde per terra. Non so dove abbia battuto. Quando accesi la luce, le vidi il sangue che le usciva dalla tempia. La sollevai, la portai sul letto, le passai un fazzoletto sulla ferita. Non era una grave ferita. Corsi a prendere il cane, che tremava sempre. Era fame sacrosanta. Gli tuffai il muso in una scodella di latte, e quando sentì il sapore rinvenne e bevve tutto d'un fiato. Cercai nella credenza: trovai pane, e glielo feci mangiare, trovai una verza cotta, e gliela feci mangiare, non la voleva dapprima, ma poi gliela ficcai giù per forza, poi ancora pane e latte e una tazza di brodo. Lei intanto, sul letto, piangeva con una gran smorfia. Borbottava parole atroci contro di me. Ma poi tacque e si addormentò, e appena sentii il suo pesante respiro mi versai un bic chiere di vino e al cane diedi un pezzo di salsiccia e altro pane e altro brodo, finché nella credenza non restarono che i piatti e le due uniche pentole. Il ventre del cane si era gonfiato come un pallone duro. Era sazio finalmente. Lo deposi sul letto 10 infilai sotto la coperta, con 11 capino fuori e mi distesi al suo fianco. Spensi. Gli tenevo una mano sul capino, e d'un tratto glielo sentii improvvisamente freddo, come di ghiaccio. Sarebbe stato molto bello ave re una famiglia, dissi tra me, ma gari fatta solo di una donna buona e di un cane a chiazze rosse. Ma dalla vita, dissi tra me ancora, è impossibile ottenere tutto ciò che uno vuole. Dalla finestrina entravano la prima luce e la prima aria del mattino, e il mio lavoro di quel giorno sarebbe stato di andare a seppellire il cane in un Campetto che so io, vicino al Po, dietro le baracche. Gino Pugnetti

Persone citate: Gino Pugnetti

Luoghi citati: Francia