Cronaca di una giornata trascorsa nei villaggi dei ribelli di Francesco Rosso

Cronaca di una giornata trascorsa nei villaggi dei ribelli STRADE DESERTE IN ALGERIA TRA PERICOLI INVISIBILI Cronaca di una giornata trascorsa nei villaggi dei ribelli Macchina ccrn targa italiana come salvacondotto - Estenuante attesa di emozioni - Le pattuglie senegalesi ed il giovane prigioniero senza paura - Quando scende la notte, i guerriglieri, come fantasmi, scendono dai monti, attaccano, uccidono, si dileguano (Da) nostro inviato speciale) Algeri, 7 marzo. Questa è la cronaca di una giornata trascorsa nella grande Kabilia, inviolato rifugio di fellagha, tra foreste e su strade di montagna che nessun europeo osa oramai percorrere. Eravamo partiti di buon mattino da Algeri affidando ad incerti fattori la riuscita del nostro viaggio: avremmo attraversato la zona più pericolosa detta guerriglia durante le ore piene del giorno: i fellagha, a differenza dei ribelli marocchini, finora non hanno ucciso giornalisti; viaggiavamo su una macchina del Corpo consolare con- targa italiana, al volante c'era Filippo Anfuso junior, viceconsole ad Algeri. Benché fosse domenica il traffica sulle strade era inesistente, in cento chilometri abbiamo incrociato due pullman, tre autocarri, nessuna automobile. Nei piccoli paesi si svolgeva la consueta vita di guarnigione delle retrovie. Una parte dei soldati francesi montava la guardia dietro i s'acchetti a terra e i cavalli di frisia, una parte oziava nei caffè in liberà uscita. Stormi di < sciuscià > uterini ronzavano come mosche a contendersi le scarpe dei soldati. Vedendoci sorridere alla scena, un soldato disse: xPer quel che costa, tanto vale morire con le scarpe lucide ». Il pensiero della morte domina anche nello scherzo: l'imboscata, lo sparo a tradimento, anche nel centro della città, può avvenire ad ogni istante. Ci lasciammo alle spalle Menerville, Camp Marechal e Tizi Ouzou, luoghi relativamente tranquilli per la presenza di forti presidii dotati di poderosi, ma inutili carri armati. I ribelli si annidano in montagna, per raggiungerli bisogna scarpinare su per le salite. Facemmo tappa ad Azazga perchè Anfuso voleva fotografare il caffè moresco con gli arabi in turbante rosso e burnus bianco accosciati davanti alle tazzine posate in terra. Piccoli reparti di senegalesi, l'elmetto calato fin quasi sulle grosse labbra e il mitra in posiziono di sparo, pattugliavano le strade. Qui c'era aria da prima linea, la sera precedente i ribelli erano entrati in città e avevano prelevato e ucciso due arabi collaborazionisti. Ad Azazga la strada s'impenna in una serie di tornanti da capogiro, in venti chilometri scala novecento metri di altezza, si allarga infine nel breve pianoro su cui sorge Yakourene, ultimo presidio di soldati senegalesi e di polizia francese. Al posto di blocco un agente esaminò i passaporti, tentò persuaderci al ritorno, ci augurò buona fortuna e ci lasciò passare. Il fondo stradale era sconnesso e dovevamo percorrere 80 km. in una zona dove potevamo in- contrare i ribelli, spaccare la macchina e non trovare certo aiuto in caso di bisogno. I/o strada correva sul fianco del monte aggrovigliata in curve e controcurve. Durante i primi chilometri scherzavamo ancora: Anfuso propose di spegnere le sigarette per non irritare i fellagha che tagliano il naso, le orecchie, le labbra ai trasgressori del boicottaggio contro le sigarette francesi; ridemmo ma spegnemmo le sigarette perchè di mano in/ mano sentivamo sparire il piacere dell'avventura e salire invece una sottile inquietudine che si trasformava a poco a poco in una sensazione indefinibile, parente prossima della paura. Anfuso guidava il più velocemente possibile, e fu per questo che all'uscita da una curva prese in pieno il primo ostacolo. La macchina sobbalzò d'improvviso, sbattemmo con violenza il capo contro il soffitto, ci fermammo senza flato sul ciglio della strada; fu un miracolo se superammo il fosso scavato dai ribelli senza rovesciarci nel sottostante precipizio. Avanzammo più cauti lungo la strada che correva ora in una foresta impenetrabile dove tutto era immoto; nemmeno qualche uccello sugli alberi che lacerasse con un grido l'angoscioso silenzio che ci avvolgeva. Nella valle, o aggrappati a picchi scabri, i paesetti kabili, impasto d'argilla, apparivano come un: povero gioco infantile di cubi sovrapposti. Ne attraversammo uno lungo quella strada d'incubo: gli arabi oziavano addossati ai muri di fango, le donne kabile fiere e proterve nei loro sgargianti vestiti offrivano il volto scoperto e tatuato d'azzurro, ci guardavano con occhi distratti, né ostili né favorevoli. Persuasi Anfuso a non fotografarle, si sarebbero certamente offese. La foresta c'ingoiò nuovamente e ancora tornò J'i?iquietudine, il disagio per il denso silenzio in cui viaggiavamo. Andavamo come in un tunnel verde, in un ambiente dove l'insidia poteva scattare ad ogni istante. All'usciiiiiitiiiiitiiiiiiitiiiiiiitititittiiiDiiiiiiitiiiiiiiitn ta dalle' curve, alle frenate per superare senza troppi danni i fossi scavati dai fellagha (ne abbiamo trovati sette) pensavamo che fosse la volta buona, che qualcuno apparisse infine di tra gli alberi a sbarrarci la strada. Invece non accadeva nulla e continuavamo a correre con la precisa convinzione di essere scrutati dagli occhi di gente che non aveva alcun interesse a mostrarsi in quel momento. Finalmente incontrammo qualcosa di vivo, in quel deserto di alberi. Sull'asfalto sconnesso, un branco di scimmie faceva le capriole, balzarono, spaventate dal motore, sui rami più vicini. Incontrammo molte scimmie, e fu tutto; col loro ironico chiacchiericcio ci distrassero per qualche istante. Costretti a rallentare continuamente per evitare i fossi, i pati segati del telefono, gli àlberi■abbattuti"e messi di traverso; impiegammo più di tre ore a percorrere ottanta chilometri. Ci eravamo oramai abituati alla tensione nervosa e col passar del tempo subentrava la delusione. Quando arrivammo a El Kseur, oramai alle porte di Bougìe, ci sentimmo come defraudati. Consideravamo uno spreco inutile tanta fatica e tanta tensione, dalla guerriglia ci attendevamo emozioni più forti. E non avevamo veduto la faccia di un fellagha. A Bougie c'era aria di stato d'assedio: da una settimana la città è pressoché isolata dal resto dell'Algeria, telefono e telegrafo non funzionano, i treni deragliano quasi ogni giorno, nessuno osa avventurarsi sulle strade di Algeri e di Costantina. I civili circolavano armati, fucile in spalla e rivoltella alla cintura.' Al ristorante abbiamo conosciuto un ingegnere italiano che recupera i relitti di navi inalesi affondate durante la guerra dai nostn aerosiluranti. In questa rada, chiusa fra i monti come un fiordo norvegese, l'asso Buscaglia ha compiuto prodezze: è caduto con il suo aereo proprio in questo limpido specchio di mare, ma si è salvato. La gente, quando sentiva che avevamo attraversato la foresta, ci guardava come fossimo fantasmi: < Aspetti che riprenda fiato », disse il gendarme a cui avevamo chiesto informazioni. Non riuscivamo a comprendere tanta paura. Dei fellagha noi avevamo visto soltanto i fossi scavati sulla strada e i sabotaggi alle linee telefoniche. Siamo ripartiti da Bougie per la strada bassa, sempre nella grande Kabilia presidiata da senegalesi e praticamente controllata dai ribelli. A Sidi Aich, dove due giorni prima erano stati uccisi sette legionari, abbiamo finalmente visto un fellagha. I senegalesi in pattuglia rasentavano i muri del paesino, cercavano qualcuno e temevano l'agguato. Sono entrati in una casa e ne sono usciti poco dopo con un prigioniero: era un ragazzo, non aveva più di voi t'unni e non aveva paura; almeno, non ne dimostrava. L'hanno issato sul camion ed egli è rimasto buono, sicuro, quasi sorridente in mezzo ai volti impenetrabili dei soldati negri. Ad Akbou, dove ogni giorno avvengono scontri tra ribelli e senegalesi, abbiamo sostato per fare fotografie. II sole caldo, estivo, impigriva le comitive arabe sdraiate sotto gli alberi, all'ombra dei muri. I7n gruppo di ragazzi, cenciosi, sudici, rachitici, si accosta fino a chiuderci tn un cerchio. Sorrisi al più grandicello e gli dissi: « Fa caldo, vero t ». Rispose subito: < E' il momento ». Dal tono della sua voce non compresi a quale momento, a quale cal¬ do alludesse. I giovani arabi erano tutti deliranti seguaci dei fellagha. Lo vidi levare gli occhi al cielo, fissare con odio due aerei che volavano bassi-a perlustrare le gole e gli anfratti dei monti. Arrivammo a Maillot che il sole era ancora alto: il paese era deserto, porte e finestre delle case sbarrate. Il coprifuoco incomincia alle cinque del pomeriggio, finisce alle otto di mattina. Nella lunga notte di Maillot il passo delle ronde militari risuona minaccioso;' ma ogni notte i ribelli scendono dai monti, attaccano, uccidono, si dileguano. A Bouira incontrammo un forte schieramento di carri armati e autoblinde, tutta la truppa era francese. Correvamo oramai verso Algeri, la sola città in cui non ci sia il cop'rifuoco. Ora-sulla I strada il traffico automobilistico era intensp. I gitanti domenicali tornavano dalle brevi escursioni nei dintorni della capitale, si affrettavano a casa prima che, con l'oscurità, sopraggiungesse il pericolo di un attacco dei fellagha che, inafferrabili, invisibili, tengono oramai assediata anche Algeri. Francesco Rosso ■iiiiiiitiiiiiiiiiiiiitiiiiiiiiiiiiiiiiiiiitiiiiiritiiii *' p-lff vv »Or >*'^Cartaqens. Hmeru f —v*v •■iiiiiiiiiiiititiitiiiiiiiiiiiititiiiiiiiiiiitiiiiiiiiiitiiititiiiiiiiiiiiiiiiiiiitiiiiitiiiiiiiiiiiiiitiiiiiiiiitf iii

Persone citate: Anfuso, Buscaglia, Filippo Anfuso, Maillot, Marechal